Benevento – Minaccia di sgombero per la Janara Squat

Riceviamo e diffondiamo:

Mercoledì scorso è stata notificata un’ordinanza di sgombero per la Janara Squat, l’occupazione anarchica sita in via Niccolò Franco a Benevento.
L’appello è naturalmente rivolto a tutte e tutti a tenere alta l’attenzione e seguire l’evolversi dei fatti per contribuire concretamente ad evitare e resistere allo sgombero della casa che ormai vanta più di 1 anno e 6 mesi di vita.

Seguono il testo e il volantino che stanno circolando per Benevento:

La Janara Squat è un immobile di proprietà del Comune di Benevento strappato all’abbandono, al degrado ed all’incuria dall’ottobre del 2014;
Dà un tetto a chi non vuole lasciarsi rapinare da padroni di casa assetati di soldi;
E’ uno spazio autogestito, nel pieno centro della città, attraversato da decine di beneventani e non, in cerca di rapporti orizzontali e non mercificati;
E’ un laboratorio di autoproduzione, dove intraprendere processi produttivi liberi dal ricatto del lavoro salariato, con all’attivo un microbirrificio artigianale ed un orto sinergico permanenti (oltre ad un forno a legna, ed una sala prove musicale in fase di realizzazione);
E’ una degna risposta al tentativo da parte dell’amministrazione di vendere gli immobili del Comune per tappare i buchi di bilancio frutto del clientelismo e della politica partitica; immobili che al contrario possono essere sottratti alla muffa e resi spazi sociali al servizio di TUTTI, e non solo di pochi privilegiati o degli “amici degli amici”;
La Janara Squat è un pezzo di questa città, e adesso è sotto minaccia di sgombero (fissato il 5 maggio).
Non sappiamo se si tratti di un iter burocratico innescatosi autonomamente, o se sia il chiaro tentativo dei padroni e dei politici di cancellare una meravigliosa esperienza che mina le dinamiche clientelari e ricattatorie a loro tanto care.

Sappiamo però che la Janara Squat è un pezzo delle nostre vite, che è nata con la Lotta e che, fino a che ne resterà una sola pietra, con la Lotta e la Solidarietà verrà difesa!

Arrivederci sulle barricate!

Janara Squat non si tocca!

AGGIORNAMENTO DEL 21/04

Irruzione al Consiglio comunale di Benevento

In Consiglio irrompono gli anarchici: ed è tensione

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Firenze – Arresti, scontri e molotov contro caserma dei carabinieri

dai media di regime

Quattro bottiglie molotov sono state lanciate all’alba intorno alle 5 contro la caserma dei carabinieri di Rovezzano, a Firenze, facendo scattare ricerche a tappeto in tutta la zona. Due degli ordigni sono esplosi, provocando lievi danni alla facciata e bruciando il motore esterno di un condizionatore. Si tratta di un raid anarchico collegato a un episodio accaduto alcune ore prima. Verso mezzanotte e mezzo una sessantina di giovani si sono scontrati violentemente con polizia e carabinieri in via Generale dalla Chiesa. Tutto sarebbe partito quando i militari hanno controllato un ragazzo che camminava sul margine della strada: all’improvviso, un gruppo di anarchici che stava partecipando a un rave party in via Aretina in un’area aperta ha circondato l’auto dei carabinieri cercando di arrivare allo scontro. Tre persone sono state arrestate, una ragazza e un ragazzo di 28 anni e un altro di 25. Per loro le accuse sono di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento. Il raid contro la caserma è scattato qualche ora più tardi, intorno all’alba.

Nella notte durante i controlli in via Aretina sono intervenute altre pattuglie di carabinieri e polizia: sono volati calci, pugni, bottiglie di vetro e altri oggetti. Una decina tra poliziotti, carabinieri e vigili urbani sono finiti in ospedale e sono poi stati dimessi con prognosi fino a dieci giorni. Sul posto anche vigili del fuoco e polizia municipale. Intanto, da stamattina, l’ingresso del tribunale di Firenze è presidiato dalle forze dell’ordine: nei giardini vicino al palazzo di giustizia si trovano una decina di antagonisti. La situazione, al momento, sarebbe comunque tranquilla. Da alcune ore sono scattate anche perquisizioni lungo via Aretina.

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Contro il referendum

da: alcunianarchiciudinesi

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Udine, giovedì 7 aprile 2016

Avevo pensato tempo fa di scrivere qualcosa su questo tema, non appena sentita la nuova eccitante notizia del rito democratico. Poi mi ero riproposto di lasciar perdere. Scusate, ma la poca attitudine della gente a chiamare gatto un gatto mi ha spinto a desistere dai miei propositi silenziosi e rompere ancora una volta i coglioni, attività nella quale credo di eccellere.
Ebbene, il 17 aprile 2016 la democrazia invita i suoi complici a recarsi alle urne per votare un referendum inerente (ma in realtà non su) le trivellazioni. Se ne sarà certamente sentito parlare: la sinistra, istituzionale, movimentista e libertaria che sia (pur sempre sinistra è), non fa che blaterarne da un po’.
C’è chi andrà a votare a favore delle trivellazioni. Il progresso è importante e se fa rima con “cesso” è solo per caso.
C’è “invece” chi andrà a votare contro le trivellazioni (a fianco dei fascisti di Forza Nuova) e si sentirà con la coscienza a posto, bravo, bello, ambientalista e soprattutto super-democratico. E passo passo, di giorno in giorno, di urna in urna (fino a quella finale), la Società, “la nostra casa comune”, sarà un posto migliore, magari pure col giardino e la casetta del cane. Certo, le trivelle ci saranno ancora, i petrolieri pure e il mondo che li genera anche, ma, per dio!, non si può mica volere tutto dalla vita, no? Bisogna sapersi accontentare. Soprattutto delle occasioni che la liberalità della democrazia ci dona. In fondo il Popolo si esprimerà, quel benedetto 17 aprile, alla fine del calendario dell’avvento. Potere del Popolo, demos… cratia… Bello, no?
C’è “poi” chi in genere non vota ma andrà a votare lo stesso. Sì, sì, lo so, la storia la conosco già: i politici e i partiti sono brutti e cattivi e noi abbiamo perso fiducia in loro, o – com’era?, ah, sì – “non ci sentiamo più rappresentati”, se proprio dobbiamo al massimo un votino “di protesta” qua e là, o addirittura siamo anarchici e libertari. Sì, a noi il nazionalismo non piace e la parola “partiti” neppure: meglio chiamarli federazioni… italiana, francese, iberica… Però questa è un’altra storia: basta purismi, per dio!, basta celodurismi, che cazzo!, se c’è di mezzo il nucleare o l’acqua pubblica (… pubblica?!) o le trivellazioni o i referenda si parla di democrazia diretta. Avanti, compagni, ops compagne, o compagn*, no compagnx, anzi compagn-, tutt* per la R*v*luz**ne!, f*n* alla pr*ss*ma urna!
C’è infine chi non andrà a votare. Si è obiettato infatti, e a ragione, che il referendum non è contro le trivellazioni, ma al massimo per impedire che le compagnie petrolifere (che non si toccano) continuino a estrarre gas e petrolio nei pozzi già attivi in mare entro le 12 miglia marine (quelli oltre non si toccano) anche dopo la fine del periodo di concessione del permesso (che non si tocca). ‘na battaglia veramente radicale, non c’è che dire. E non ci sarebbe infatti niente da dire se, come sempre, la società civile (nell’allargata accezione companierista che io gli attribuisco) non avessero scelto di non capire un cazzo (oh, ma che arrogante giovinastro!).
Questo è un argomento di critica, fondato sì, ma pur sempre recuperabile. Se per assurdo si proponesse un referendum per la messa fuori legge delle compagnie petrolifere, delle trivellazioni, dei pozzi petroliferi e delle concessioni per l’estrazione del gas, allora che cosa diremmo?, che allora in quel caso il referendum va bene?, e la Legge pure?
Questo lo dico perché la critica che io muovo al referendum è ben altra e questa non può proprio essere recuperata. Il referendum è volto al miglioramento della Legge, dello Stato e della Società. E se ci si dice anarchici (e non a-caco-archici, ma an-archici, negatori di ogni dominio, di ogni autorità, non solo di quelli brutti e cattivi… come se ce ne possano essere anche di buoni) non si può, non per dovere ma anche solo per una questione linguistica, volere alcun miglioramento della Legge, dello Stato e della Società, che sono autorità. Migliorare qualcosa, con rivendicazioni di diritti, libertà civili e leggi più “green”, non fa altro che migliorare quello che dovrebbe essere un nemico, e migliorandolo lo si rende più accettabile, fortificandolo. Se le persone rinchiuse ad Auschwitz avessero ottenuto, dopo apposito referendum popolare, il diritto a una cucina un po’ più dignitosa, il lager sarebbe diventato quindi accettabile? È un caso limite, strilleranno in molti. E, di più: paragonare qualcosa al nazismo equivale a sminuire il male. Certo, ma non farlo destinerebbe gli orrori del passato a non insegnarci niente e a ripetersi all’infinito sotto volti nuovi, cosa che infatti succede quotidianamente (p.e., con campi di concentramento per le “razze inferiori” un tempo denominati lager, oggi C.I.E.). E, restando in tema, Adolf Hitler non fu forse eletto democraticamente e l’Austria annessa al III Reich con l’Anschluss tramite un vero e proprio “referendum popolare” degno della migliore “democrazia diretta”? Perché qualcosa dovrebbe essere giusto per il semplice fatto che lo decide il Popolo? Cosa mi rappresenta questo sacrosanto Popolo? Io sono me stesso, e il Popolo chi cazzo è?
E per finire un’esortazione: nelle urne ci stanno le ossa: la vita, per piacere, cercatela altrove!

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Dacci oggi il nostro panico quotidiano: uno sguardo sui fatti di Bruxelles

riceviamo e pubblichiamo:
Dacci oggi il nostro panico quotidiano
uno sguardo sui fatti di Bruxelles


«La guerra è uno dei tanti fenomeni, il più grave di questi,
che scaturiscono dal presente ordinamento sociale.
E a noi questo fenomeno non deve riuscire inaspettato
poiché sappiamo che esso non è che il corollario inevitabile di questa civiltà.
Perciò noi non possiamo combattere isolatamente il fenomeno,
senza distruggerne le cause prime che lo hanno provocato»
Bruno Filippi

L’esistente non può ammettere intrusi, dove in uno stato di perenne prigionia sociale ci fa masticare le miserie che produce. Incubati e controllati essa tiene la nostra fantasia in vitreo, puntandoci perennemente delle armi in nome del tutto deve restare così com’è.
Dettando legge, cerca di dirigerci lontano da noi stessi, alza muri per difendere il terrificante diritto di mercificarsi, tenta di correggere ogni nostro desiderio sovversivo e cerca di guidarci come pecore nel gregge.
Il potere è il fine e tutti i difensori del mondo di oggi sono pronti ad usare ogni mezzo per difendere i propri privilegi. Il dominio attraverso la paura fortifica la dipendenza verso di esso e si prende in cambio assoluta obbedienza dai suoi sudditi.
Schiavi del tempo, sembra non esserci rimedio ai continui genocidi perpetrati da questa civiltà. Sangue chiama sangue, ora il sangue è ovunque, recita una canzone ed è quello, sostanzialmente, che la guerra porta con sé.
La guerra non ha confini. L’eterno ritorno della guerra fa sfumare, oggi più che mai, la distinzione fra un fuori e un dentro.
L’era contemporanea dell’idra tecnologica ha oltremodo allargato la guerra a funzione di cosa. L’attacco bellico colpisce la coltre dei luoghi in cui viviamo; ormai l’essere tutti in guerra non è più condizione lontana, ma è la situazione stessa in cui ci si trova.
I fatti di Beirut, Parigi, Raqqa, Ankara e Bruxelles ci dicono che la violenza ritorna, in modo sempre più frequente, al mittente.
Purtroppo non stiamo parlando di violenza che tenta di darsi a qualcosa di totalmente altro, rispondendo alla violenza continua della società.
Oggi siamo davanti a quella forma di violenza gregaria, dove il martirio è l’uscita timorata di qualsiasi invasato religioso, fautore della continuazione di questa società: la presenza dello Stato, che esso sia islamico, democratico o totalitario poco importa, con tutto il suo carico di morte. Ed è per questo fine che chi compie atti come quello di Bruxelles vuole proporre una propria egemonia, vuole unire oppressi e oppressori sotto la bandiera di un forza trascendente, con lo Stato come mezzo organizzatore di questo progetto.
Di conseguenza, questi timorati di Dio non sono nemici degli stati guerrafondai, ma sono nemici mortali di chi vuole sovvertire questa intera società poliziesca.
Esistono delle molteplici differenze per chi aspira alla realizzazione delle propria libertà con quello che sta succedendo. Al lato opposto, non esiste nessuna diversità da chi si fa esplodere in mezzo alla gente per lo stato islamico e chi fa esplodere bombe belliche in nome dello stato democratico, con l’impiego di eserciti e droni. Nessuna differenza con chi crea dei controlli alle frontiere e giganteschi campi di concentramento, chiamati inverosimilmente hot spot, con chi sgombera dei luoghi dove si ammassa quella eccedenza umana indesiderabile come a Calais o attacca militarmente come a Idomeni, con chi installa filo spinato ai confini fra diversi paesi europei e chi pratica espulsioni collettive.
Quando qualsiasi tipo di istituzione piange i massacri da loro stessi creati, la conseguenza è vomito e rabbia per tanta ipocrisia.
È il quotidiano di guerra che si concretizza nei paesi che hanno gonfiato di odio tantissimi individui, attraverso i bombardamenti democratici e l’obbligo alla fuga di milioni persone che scappano da guerre mortali e commercio che sarà sempre predatorio: Bruxelles diventa Gaza, Parigi diventa Kabul, Ankara diventa Baghdad.
Il potere è decentrato, ma il fine è sempre lo stesso: l’economia che si finanzia con la guerra, la guerra che elargisce materialmente e idealmente gli strumenti per sostenere l’economia.
Se il fine, cioè il dominio, è lo stesso fra integralismo religioso e oppressione democratica, la differenza sostanziale sta nell’uso e nell’immagine della morte.
La morte, che da un lato si manifesta palesemente e diviene reale con le immagini delle devastazioni provocate dai padrini del potere oscuro; dall’altra viaggia nelle esistenze dei consumatori omologati alla merce, di chi crepa con o senza lavoro e di chi viene controllato passo dopo passo da qualsiasi sistema di sorveglianza.
Oggi non esiste più un posto neutrale dalla guerra di chi bombarda e massacra in Oriente e di chi aspira al ruolo di dominatore creando terrore nel cuore delle necropoli occidentali.
E i sovversivi, in tutto questo, dove stanno? Come degli appunti in una discussione che non c’è, tutto questo rimanda al pensare per agire.
Chi aspira a farla finita con la guerra e i massacri indiscriminati potrebbe percorrere il sentiero che può spezzare il deja vu continuo del capitalismo: portare il disordine e la sedizione nei luoghi dove la guerra è in atto, cioè in ogni luogo. Per non trovarsi schiacciati fra guerra planetaria e guerra civile, pensare e praticare la diserzione per sabotare qualunque tipo di guerra.
Rovesciare la società tutta, cioè spingersi verso la rivolta per evadere il muro di cinta e trovare la libertà, mettendo in contraddizione le basi dell’edificio sociale e del suo totalitarismo.
Infondo, la vita non può essere qualcosa a cui aggrapparsi ma può divenire l’incendio dei propri desideri.

stampato in proprio: Cremona, fine marzo 2016

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Sentenza per il processo italiano contro Silvia, Billy e Costa

da www.silviabillycostaliberi.noblogs.org

Questa mattina presso il Tribunale di Torino c’è stata la lettura della sentenza per Silvia, Billy e Costa, già condannati in Svizzera per possesso, trasporto e ricettazione di esplosivo per il tentativo di attacco al centro di ricerche nano-tecnologiche IBM a Zurigo a firma Earth Liberation Front Switzerland. Il processo elvetico si concluse con la condanna tra i tre anni e quattro mesi e tre anni e otto mesi.
La procura di Torino, imbastendo un caso tutto italiano, aveva chiesto pene fino a 5 anni e 6 mesi per i medesimi reati. Il tribunale si è espresso con l’improcedibilità per il “Ne bis in idem”, non poter condannare per lo stesso reato, quindi il non dover procedere per difetto di giurisdizione.

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Giornate di mobilitazione contro la logistica bellica: contro la guerra in Libia inceppiamo la macchina militare

CONTRO LA GUERRA IN LIBIA
INCEPPIAMO LA MACCHINA MILITARE

La guerra non è più dichiarata: essa semplicemente è. Dal 1991 Lo Stato italiano è in guerra, con le sue truppe schierate in più di 20 paesi e la partecipazione a tutte le principali “missioni internazionali”.
Adesso il governo Renzi si sta preparando ad aggredire la Libia, con l’obiettivo di schierare la fanteria a difesa dei giacimenti petroliferi e dei metanodotti dell’ENI.
Come se non bastasse, lo Stato italiano tornerà presto in Iraq con un contingente di circa 500 soldati, che presidieranno i lavori di ristrutturazione della diga di Mosul, affidata all’impresa di costruzione Trevi di Cesena.
La guerra è da sempre utilizzata da Stati e classi dominanti per affermare i propri interessi. Dall’accaparramento delle risorse all’arrivo di manodopera a basso costo in fuga dai conflitti, la guerra è l’ossigeno dell’impresa.
Ma non solo: la guerra è essa stessa un’impresa, assicurando ingenti profitti ai padroni delle armi – in testa il colosso di Stato Finmeccanica – e agli speculatori che si spartiscono gli appalti di “ricostruzione”, passando per gli imprenditori della logistica necessaria alle manovre.
Mentre i padroni banchettano sul mondo, la guerra la vediamo anche qui vicino a noi, sotto forma di un’umanità braccata: milioni di profughi si accalcano alle frontiere esterne degli stessi Stati che li hanno bombardati, ma si trovano di fronte solo chilometri di muri, filo spinato, acciaio, campi di internamento e militari che li sorvegliano. I confini, apparentemente scomparsi, ritornano a farsi materiali.
Da questa parte della frontiera, la popolazione viene fatta vivere nel terrore che la guerra possa tornare indietro sotto forma di attacchi indiscriminati. Si restringono gli spazi di dissenso, peggiorano le condizioni di vita e le città vengono militarizzate. Tutto ciò viene fatto con il tacito assenso di chi a queste scelte non oppone resistenza.
Ma qui vicino a noi, possiamo trovare anche i responsabili di questi orrori. Non sono infatti solo i militari che fanno la guerra. Essi hanno bisogno anche di altri che li sostengano nel loro compito: le industrie che producono gli armamenti, le università che sviluppano i ritrovati tecnici e le dottrine strategiche d’intervento, i vettori commerciali per il trasporto logistico di armi e soldati.
Un carro armato che non viene imbarcato su una nave non può andare a sparare oltremare; una bomba che non viene portata fuori dalla  fabbrica non può essere sganciata su un villaggio libico o siriano. Per questo Moby Lines, Tirrenia, FS Logistica, Saima Avandero, Ter Roma e tante altre sono complici della guerra. FS Logistica guadagna oltre 10 milioni di euro l’anno per il trasporto su rotaia dei mezzi militari. Moby Lines trasporta le bombe della RVM dalla Sardegna al Continente, per permetterne l’arrivo sugli scenari di guerra.

Contro la logistica bellica, l’imminente attacco militare alla Libia e tutti i complici del militarismo, occorre quindi agire. Per questo dal 28 marzo al 2 aprile invitiamo alla mobilitazione tutti i nemici della macchina militare, realizzando azioni di disturbo e contrasto contro coloro che permettono l’arrivo di mezzi e rifornimenti al fronte, secondo i desideri e le capacità di ognuno.

Per Sabato 2 Aprile invitiamo a manifestare nelle piazze, di fronte a università, centri di ricerca, industrie belliche, in quante più città possibili.

Perché alla guerra tra gli stati e i popoli opponiamo la guerra sociale, per l’abbattimento di ogni frontiera e contro ogni sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e sulla natura.

Anarchici e antimilitaristi

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[Roma] Danza di EQUIinOZIO da mezzodì

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Lo stagno morto e l’acqua fresca

di Michele Fabiani

Sono convinto da tempo che il cosiddetto “movimento “, definizione di cui ho sempre poco compreso il significato, sia ridotto ormai ad uno stagno morto. Penso che non sarà dal “mondo dei compagni” politicizzati che potrà mai scaturire quel terremoto auspicabile per impensierire seriamente il sonno dei padroni. Molti pesci nello stagno sono già stecchiti, altri sono emigrati o si sono rintanati. I più attivi passano il tempo a “beccarsi” a vicenda, puntualizzando, rispondendo e criticando gli altri. Il dibattito ruota su tematiche che capiscono solo gli addetti ai lavori. Sociale/anti-sociale; anonimato/rivendicazione; rivoluzione/rivolta, quando non trascende alla critica di quello che ci mangiamo a cena (vegan contro tutti) o al nostro modo di scrivere (i/e, x e altri neologismi antisessisti); ecc. Quella che manca è una spinta propulsiva e distruttiva (per il nemico). Non sono un nemico della teoria: tutt’altro! Per certi aspetti sono un vero secchione (non uso il termine nerd perché poco internettaro e grande amante del profumo dei libri), un pervertito del dibattito, dell’analisi, dello studio. Siccome sono anarchico, penso però che la teoria debba essere sembra appiccicata alla pratica. Non nel senso che sono due binari paralleli, e nemmeno in senso di “danza” marxiana prassi-teoria-prassi; ma nel senso che Teoria/Pratica devono essere già unite.

Il dibattito però, e quindi anche l’azione (che è appunto la stessa cosa, oppure è accademia), dovrebbe occuparsi di cose, per così dire, interessanti – mi si perdonerà se sono un po’ antipatico. Nell’anarchismo d’azione non c’è stata alcuna seria analisi su quella che viene generalmente considerata una delle più grandi crisi della storia del capitalismo. E se questo può sembrare troppo economicista, non c’è stato nemmeno alcuno studio degno di questo nome su quello che da sempre è il campo privilegiato dagli anarchici: la natura dello Stato e i mutamenti fondamentali che questa sta maturando. E siccome pensiero e azione dovrebbero essere la stessa cosa per gli anarchici, anche l’azione risente di queste deficienze. Perché mentre il capitale era claudicante, noi non gli abbiamo fatto lo sgambetto; e mentre lo Stato si sta riformando noi non sappiamo individuare i gangli principali della sua nuova macchina, e annientarli.

Lo stato c’è. O ci fa?

Mentre i soliti giovani autonomi, ormai ottuagenari, da 40 anni ci scassano i coglioni sull’estinzione dello Stato, sull’Impero e su altre amenità, lo Stato ben lungi a morire è vivo e vegeto, anzi fa proprio quello che fanno gli organismi in buona salute: si rinnova e con un metabolismo di tutto rispetto.

Non che non ci sia una crisi delle istituzioni costituite, ma questa crisi viene gestista dall’organismo statale come una malattia della crescita, da curare e da cui uscire più forte. O almeno ci prova. Lo Stato è anzitutto potere. Potere politico ed economico. Chi ha provato a rovesciare il secondo, senza distruggere il primo, ha finito per rinnovarli entrambi. Il potere è ovunque, nella famiglia e nelle assemblee, nei rapporti affettivi, ecc. E ovunque si forma del potere si rinnova lo Stato. Lo Stato è potere, è vero. Ma non è semplice potere: lo Stato è potere organizzato. Lo Stato, quindi, è un organismo. Mi hanno sempre fatto incazzare i leaderini di “movimento” (il Movimento, questa entità fantasmagorica! A differenza dello Stato!) che si mettevano a fare le pulci a chi usava la slogan “colpire il cuore dello Stato”; sostenendo che lo Stato è “diffuso”, è “ovunque” e non ha un cuore. Lo Stato, in quanto organismo vivente, ha un cuore, una testa, degli artigli e dei denti ben affilati. Lo Stato è diffuso ovunque, certo, anche nelle nostre case, ma è diffuso ovunque in una certa maniera, ha una organizzazione, è una macchina vivente. In quanto vivente ha dei punti deboli che sono mortali, ed altri che possono fare molto male. Altrimenti dire che lo Stato è diffuso diventa un pretesto per fare un po’ come ci pare, sprecando le nostre potenzialità con anni di galera (quando si tratta di compagni dignitosi) oppure colpire dove si rischia meno.

Il nuovo super-Stato europeo

Come abbiamo detto lo Stato vive un momento di forte trasformazione. Questa trasformazione delle volte produce febbri e momenti di crisi, quasi tutte generate dal suo interno (i rivoluzionari al momento non sembrano in grado di impensierirlo). Da questa parte del mondo, stanno sperimentando la costituzione di un nuovo super-Stato europeo. La costruzione di questo mostro non è lineare e segna momenti di discontinuità con le varie nazioni che si scazzano tra di loro sui propri interessi contraddittori. L’ipotesi generale del progetto sembra però delineata. Lo Stato, come sempre, è il cane da guardia dei padroni. In termini estremamente semplicistici l’idea sembra essere quella di allargare la recinzione a difesa della ville dei ricconi e mettere più cani e sempre più incattiviti a loro difesa (che poi a volte si mordono tra di loro o pisciano sull’albero sbagliato, ma sono cose che capitano). L’aspetto più affascinante del progetto sembra essere la sua schiettezza. Vengono a saltare quei meccanismi scenici che reggevano il teatrino politico e che si sono così accuratamente sviluppati negli ultimi due secoli: tenderanno a perdere di importanza i parlamenti, i partiti, i sindacati. Il rapporto di forza sembra abbastanza semplice: qui ci sono i nostri interessi, le banche, la moneta, le industrie, le multinazionali, insomma qui c’è il nostro “orto”; e questi sono i “cani”, questi sono i fucili con cui accoglieremo gli intrusi. I migranti li hanno già visti, sia i cani che i fucili.

Allora gli anarchici dovrebbero dibattere su questo, invece che su tante amenità: come si arriva al cuore della nuova macchina statale? e più vicino casa dove sono i nodi principali della rete? chi la sta tessendo? cosa gli facciamo?

 

Sociale o anti-sociale? Una questione storica

La gran parte dei pesci nello stagno invece che affrontare queste ed altre questioni di sostanza, per andare a mordere la carne viva dell’organismo statale, si impantano nelle solite diatribe. Sopra ne ho citate alcune, l’unica di cui vale la pena parlare è la dicotomia fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Un dualismo che attraversa il nostro movimento fin dalle sue origini. Spesso semplicemente ci si schiera con uno dei due “partiti”. Qualcuno cambia idea, passando da una sponda all’altra dello stagno, ma è raro che la contraddizione venga risolta positivamente. Il caso più importante nella storia dell’anarchismo forse è rappresentato dagli anarchici italo-americani che si raccoglievano intorno a Luigi Galleani, i quali erano anti-organizzatori nella struttura e comunisti o comunque classisti nella lettura della società. Dei compagni e delle compagne che hanno fatto molto male al capitalismo americano proprio negli anni in cui emergeva come potenza mondiale.

Io credo che la dicotomia fra sociale e anti-sociale non vada affrontata come una questione di identità. Che non valga ora e per sempre. Penso che l’unico modo per superare la contraddizione sia affrontandola storicamente: ci sono momenti in cui si deve essere sociali e altri in cui non si può che essere anti-sociali. Quando ci sarà l’insurrezione, nel senso proprio del termine di milioni di persone armate per strada, sarà necessario essere pronti all’intervento sociale ed essere organizzati per combattere, per difenderci, per prevenire le derive autoritarie dei moti rivoluzionari. In quel caso dire “io la mia rivoluzione la faccio ogni giorno” diventerà solo una masturbazione, perché sarà evidente che quello che sta accadendo è qualcosa di qualitativamente diverso. Viceversa, in un periodo contro-rivoluzionario (come quello odierno) non possiamo che essere anti-sociali. Perché l’intervento sociale diventa una foglia di fico che nasconde solo il nostro nudo attendismo. Diventa la scusa per non fare un cazzo di niente. Altro che avanguardismo, qui siamo alla retroguardia! La “gente” si modera sempre più e i rivoluzionari adeguano sempre più in basso i proprio sogni di rivolta. La degenerazione di tanti movimenti (no global, no tav, lotta per la casa, ecc.) sta lì ad indicarlo.

In sintesi, in qualunque momento, anche nel più buio, un singolo individuo o una piccolissima minoranza di affini può rappresentare una spina nel fianco dietro le linee nemiche. Può anche fare molto male e non essere solo uno sfogo esistenziale. Però può anche rappresentare, da un punto di vista esistenziale, un momento di formazione. Questa non va messa nel cassetto personale, ma può diventare un fatto storico se in un periodo più favorevole la si usa per far avanzare un movimento che è diventato di massa (senza però aspettarla la massa, come fosse il Messia).

Storia e Volontà

C’è dunque una questione ancora più teorica da affrontare. Perché fare dibattito è importante, purché si dibatta di temi intelligenti e interessanti. Capire quanto è forte lo Spirito della Storia e quanto la nostra Volontà. Si collega perfettamente a quanto detto nel paragrafo precedente, anche se un gradino più in astratto.

Io ritengo che le grandi questioni storiche siano piuttosto indipendenti dalla nostra volontà di singoli individui. C’entra la ricchezza, la povertà, le guerre. Non in un senso meccanicistico: talvolta la crisi genera reazione e la guerra genera nazionalismo. Ma comunque l’emergere o meno di un periodo rivoluzionario è un qualcosa in larghissima parte indipendente da noi.  Al contrario, se un gruppo di sfruttati questa sera esce e fa un’azione violenta contro i loro sfruttatori, questo rappresenta (quasi) un puro atto di Volontà. A meno che non si voglia fare del becero psicologismo: tipo la figura del padre, l’insoddisfazione sessuale, o altre stronzate delle pseudo-scienze che la borghesia stressata si è inventata. Questa questione, apparentemente filosofica, assume una sua importanza se la si usa per affrontare ad esempio la frattura fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Cioè se la si vuole affrontare con serietà e non come polemicuccia fra pesci nello stagno morto. Qual è l’arcano? Trovare la formula soggettiva con cui un gruppo di rivoluzionari, legati da una qualche affinità, possano agire senza attendismi nelle condizioni date. Questa formula non vale ora e per sempre, ma deve essere capace di rigenerarsi, magari anche auto-archiviarsi, col divenire della realtà

Fuori dallo stagno, verso la fonte di acqua fresca

Non credo che tutto il movimento potrà uscire dallo stagno morto. I pesci, dopo un po’ di tempo nell’acquario non sopravvivono se rimessi in libertà. Non è detto che nemmeno il sottoscritto ci riesca. Quello che è certo è che la ricerca della fonte di acqua fresca sta un’altra parte. Sta nella sperimentazione di nuove prospettive di azione. Sta nello studio dello Stato e nel colpirlo nei nodi principali della sua rigenerazione. Sta nello studiare le crisi del Capitale per aggravarle.

Chi vuole rimanere nello stagno morto, va lasciato marcire. Fuori c’è tutto un mondo da sovvertire.

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[Roma] Renitenti alla leva…matineè all’Idea

Lo Spigolo - BRIGANTI-01

cacaadartecheCONCIneMA
rassegna del martedì MATINEE’

MARZO 2016
RENITENTI ALLA LEVA
una banda di facinorosi briga, grassa, attenta, ruba, violenta, razzia, sequestra, assassina: LO STATO

martedì 8 marzo
BRONTE: CRONACA DI UN MASSACRO
Florestano Vancini, 1972, 109′
con Ivo Garrani, Mariano Rigillo, Ilija Dzuvalekovski

martedì 15 marzo
LI CHIAMARONO… BRIGANTI!
Pasquale Squitieri, 1999, 129’
con Enrico Lo Verso, Branko Tesanovic, Claudia Cardinale

martedì 22 marzo
I BRIGANTI DI ZABUT
Pasquale Scimeca, 1997, 80’
con Vincenzo Albanese, Tonino Russo,  Franco Scaldati

martedì 29 marzo
TIBURZI
Paolo Benvenuti, 1996, 81’
con Pio Gianelli, Roberto Valenti, Silvana Pampanini

matinée ore 11
replica ore 21

pranzo e cena vegan a sottoscrizione
tisane pomeridiane

allo SPIGOLO tra via braccio da montone e via fanfulla da lodi

Biblioteca Anarchica L’IDEA

la biblioteca è aperta ogni martedì e venerdì dalle 17 in via braccio da montone 71a

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E’ uscito L’Urlo della Terra n° 4

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In questo numero:

Ricominciando dalla Natura

Lotta contro la tecnologia: alcune riflessioni

Tra-pianti di chi riceve e pianti di dona o vende

Attraversamenti postumani antispecisti

Xylella fastidiosa Stato insopportabile – Cronistoria di un’emergenza inventata e riflessioni in merito

Salti nella notte…

Una lettera alla ristorazione per Expo 2015? Analisi di un’azione controproducente

Solidarietà e complicità, sulle nocività e la necessità di opporsi – Note intorno al tentativo di attacco all’IBM in Svizzera di Silvia Billy Costa e al processo in Italia


EDITORIALE:

Cosa significa ricominciare dalla natura? Forse è stata abbandonata?
Sicuramente ce ne stiamo disinteressando proprio quando meriterebbe come non mai tutta la nostra attenzione, tutto il nostro impegno ed energie.

Sentire quotidianamente quell’urgenza verde, quel pericolo ambientale, quell’ennesima catastrofe ecologica in vista, l’ennesima specie rara e “fotogenica” che si estingue… strillato su ogni media è arrivato a saturare anche il nostro sentire empatico verso quella che sempre meno è intorno a noi o sotto i nostri piedi: la Terra. La descrizione quotidiana su quello che è l’ecocidio in atto si perde tra la valanga di fatti altrettanto gravi come la guerra; in questo groviglio inestricabile di cause ed effetti, ci si rassegna a non poter nè pensare al futuro, nè decifrare il presente, tanto che alcuni contesti ormai incapaci a guardare all’esterno arrivano anche ad appoggiare teorie misantrope ed estinzioniste del genere umano.
Quando si parla di ecologismo e ambiente il discorso è sempre diretto a quello che è il beneficio per l’essere umano e per le sue specie addomesticate. La separazione si fa sempre più radicale, si pensa che il lato selvatico sia ormai qualcosa di lontano da noi, semplicemente perchè non lo vediamo più e neanche lo sentiamo più. I cibi vegani industriali ricordano più l’agribusiness che la natura.

In un contesto dove la natura è degradata, l’intera società, che non può fare a meno della natura, ne risente e subisce le profonde conseguenze della sua degradazione. Queste si presentano sempre con tanti nomi e cause diverse, ma mai viene affrontata la vera radice del problema.

La crisi ecologica suggerisce l’indispensabilità della natura e l’impossibilità di sostituirne i processi che sostengono la vita. La risposta riduzionista alle “ecocrisi” estende la logica del farne a meno: presuppone che la base che sostiene la vita possa essere fabbricata nei laboratori e nelle industrie. Di fatto, in questa risposta alle crisi ecologiche, i confini tra laboratorio e fabbrica, tra scienza e profitto sfumano.

Si può così comprendere facilmente perchè l’artificialismo è diventato ora l’ideologia più in voga del dominio, che nega la necessità della natura e perfino la sua esistenza; questo perchè vuole diventare quello che ha sempre voluto essere: una totalità da cui gli uomini non possono più nemmeno pensare di uscire, un mondo senza fuori.
Il dominio distruggendo la natura fuori e dentro di noi vuole porsi come unica realtà: riporta al mondo naturale con ogni possibile immagine e discorso, ma di fatto è già un’altra cosa.

Da sempre il potere ha avuto il terrore  dell’esistenza di qualcosa di diverso da sé, dove potesse sorgere la sua stessa critica o addirittura la sua negazione. È evidente quindi questa impazienza di annunciare l’abolizione della natura per far posto a qualcosa di completamente altro, che passa dalle modificazioni di geni e di atomi. Decretando la soppressione del mondo a lui esterno, della natura, il dominio si libera dalla necessità di occuparsi delle proprie contraddizioni: il mondo non è che un pretesto per perfezionare la propria onnipotenza. Abolite le contraddizioni che potevano indurlo a riflettere su sé stesso, l’erosione dei suoli, la perdita della biodiversità, il cambiamento climatico, l’aumento impressionante dei tumori, gli segnalano un evidente errore di metodo, invece di tener conto di questi avvertimenti e modificare il proprio corso, esso cerca con ogni mezzo di distruggere o recuperare l’avvertimento che viene a contraddirlo: si inventa nuovi pesticidi ancora più micidiali, restringe il campo del selvatico mostrando la monocoltura come modello, crea piante che resistono alla siccità “fuori suolo” e terapie miracolose per rallentare l’avanzata delle metastasi.

Sono ben lontani i tempi in cui la catastrofe nucleare era ancora forte nel sentire delle persone e lo stesso sistema non aveva molti argomenti rassicuranti in merito, visto che Hiroshima e Nagasaki  erano ancora troppo fresche. Oggi invece la crisi ecologica, lungi da essere un segnale d’allarme costituisce al contrario un’ottima occasione di realizzare, sotto l’incalzare degli eventi, il progetto del dominio di sostituzione definitiva del vecchio mondo della natura con un universo interamente artificiale; l’occasione finalmente di spazzare via tutte le reticenze, tutti i dubbi e le obiezioni che gli opponeva ancora quel vecchio mondo fatto di natura intelligibile.

L’utopia di una “seconda natura” più efficace della prima, di una tecnosfera perfettamente sicura e purificata dalle insidie e oscurità, dai casi e rischi della vita naturale, non manterrà certamente nessuna delle sue promesse. Il surrogato di una vita sotto perfusione tecnica, costantemente invocato come ideale, si realizza nei fatti come instabilità permanente. Per chi gestisce e governa la potenza di questo tecno-mondo, ciò non rappresenta un problema, nulla importa se l’eredità e lo strascico di questo ottimismo siano fallimenti a ripetizione, crolli improvvisi, rovine, degradazioni, devastazioni grandi come il mondo.

Più questa natura viene schiacciata e distrutta, più questa ritorna ancora con più forza e imprevedibilità ricordando che il mondo non si è formato sotto bombardamenti genetici o piastre di grafene.
Ma questa natura cos’è? È quel che non è creato dall’uomo, quel mondo meraviglioso e temibile allo stesso tempo, che non sarà mai controllabile: è fuori e dentro di noi allo stesso tempo. Con la distruzione della natura corrisponde anche la nostra stessa distruzione, così come un oncotopo ha parenti solo dentro un laboratorio di ricerca.

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Intestato a Marta Cattaneo, specificare la causale L’urlo della Terra

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