[L’AQUILA] |A-BESTIAL FEST| #5 all’Asilo Occupato

▶ Dalle ‴15:30‴ spaccate – Concerti con 15 Gruppi!!
▶ Dalle ‴15:00‴ VJ SET – “12 Ore NO-Stop”

▶ INGRESSO a Offerta Libera
▶ Free CAMPING Area
▶ BUFFET “Vegan” / ASSAGGI “Raw Vegan” Bio

▶ DISTRO Dischi (CD/LP)
▶ DISTRO Informativa Anti-Specista
▶ DISTRO Informativa: R.I.P. “Riprendiamoci Il Pianeta”
“Firma La Petizione: STOP! Alle Scie Chimiche”

Apre:
✖ N.A.N.A. ✖

Concerti con:
✖ STRANGE FEAR ✖
✖ 400 COLPI ✖
✖ NEID ✖
✖ ARMENTA ✖
✖ CARLOS DUNGA ✖
✖ YO SBRAITO ✖
✖ DEERS ✖
✖ PROMETHEUS ✖
✖ KEN PARK ✖
✖ SOCIAL TRAUMA ✖
✖ ROOR EXPLO ✖
✖ CLOVER ✖
✖ NO CONFIDENCE ✖
✖ AS ANY WIRS ✖
✖ THE LOS MUSTACHOS ✖

* EVENTO SU FACEBOOK:
https://www.facebook.com/events/474988039180827/

|A-BeSTiAL PRoDuCTiOnS|
http://www.myspace.com/stefanomarotta
http://www.facebook.com/stefanomarotta83
stefanomarotta83@gmail.com

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Torino – “Non solo un grattacielo” [comunicato da El Paso Occupato]

riceviamo e diffondiamo:

Non solo un grattacielo.

«Rilancio dello sviluppo. Sicurezza. Riqualificazione del territorio» …

Ma quanto sono belle, caste e pure, queste parole che riecheggiano melodiose da una periferia all’altra di questa città, come pure da una sponda all’altra di tante metropoli in Europa!
Da Berlino a Barcellona, da Parigi a Roma, passando per Torino, in questo scenario d’inizio millennio, sembra imporsi, ineluttabile, la necessità di virtuosistiche trasformazioni urbanistiche.
Parole d’ordine: sottomissione alle leggi del mercato e del consumo, annientamento della diversità, controllo sociale.
E a tal proposito «non solo un grattacielo», recita in un moto di franchezza il sito della Regione Piemonte dedicato alla “vendita promozionale” della propria futura dimora. Un bel grattacielo, 42 piani di morbidezza, con tanto di parco pensile come attico. Un bell’oggettino, che ognuno non potrà esimersi dall’ammirare, da qualsiasi direzione si giunga. Un nuovo simbolo in città, verticale, potente, quei 209 metri di vessillo d’arroganza spudorata del potere, di cui sentivamo tanto la mancanza… 320 milioncini di euro. Un vero e proprio dono, e per nostra fortuna forse il più alto d’Europa, meno male più alto del grattacielo della S. Paolo, ora in corso d’opera nei pressi della stazione di Porta Susa! E sempre dal sito della Regione, la medesima segue a dar spettacolo di sé, informando la popolazione che ben presto tutta l’area verrà trasformata, grazie alla riqualificazione, in un nuovo catalizzatore della vita cittadina. (Ovvero, del come le attuali frontiere del controllo sociale, passino attraverso processi di riprogrammazione urbanistica e architettonica del territorio!). Porgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti allo studio dell’architetto Fuksas, che per la modica spesa di 20 milioni di euro (così solo per continuare a dare i numeri), non solo progettò il palazzone, ma a quanto pare ridisegnò anche tutta l’area circostante.
E così, questa avventurosa impresa, concepita da un’idea di Ghigo nel lontano 2001, passata attraverso la Bresso nel 2005, che sembrava destinata a naufragare definitivamente nel 2010 causa tagli del Governo e della nuova giunta Cota, si è infine concretizzata con l’inaugurazione del suo cantiere, avvenuta il 30 novembre 2011.
Da circa un anno, l’invasore si trova nella nostra zona, Mirafiori-Lingotto, a circa 200 metri da El Paso, la casa che occupiamo e che il prossimo 5 dicembre compirà 25 anni di r/esistenza. Alla medesima distanza dal cantiere, adiacente a via Passo Buole, si trova un lembo di verde di proprietà delle ferrovie, anch’esso occupato da alcuni abitanti di zona e adibito ad orti collettivi, feste, grigliate, spazio dove i bambini vanno a giocare…
Dal maggio scorso i lavori sono iniziati a pieno ritmo. Siamo appena alle fondamenta del mostro. Le ruspe, per tutta l’estate, divorano 95 mila metri quadrati di terra.
Tra l’altro, giusto per conservar memoria dei luoghi in cui viviamo, proprio su quei 95 mila metri quadrati di terra sorgeva un tempo la tenuta di Villa Robilant, occupata e autogestita per un periodo di 5 anni, nel secondo dopoguerra, dagli operai Fiat abitanti della zona. Fu, davvero, il cuore pulsante del quartiere, tra sale da ballo e comizi, e chissà, forse proprio per questo, sgomberata e demolita in un sol giorno (col pretesto del ritrovamento di alcune armi al suo interno) per mandato della stessa Fiat, che ne divenne la proprietaria. Vecchie storie, forse. Torniamo al presente.
Al momento, camion e mezzi pesanti trasportano incessantemente macerie fuori dal cantiere, invadendo pericolosamente le strade adiacenti e intasando il traffico. A breve dovranno far passare, assai ingombranti e minacciose, le betoniere. Per forza di cose, come prevedibile, si impone sin d’ora la necessità di alcune opere di urbanizzazione e infrastrutture, tese a modificare l’attuale viabilità, al fine di rendere facilmente fruibile l’area e assicurare un’adeguata funzionalità all’edificio. Così, per trovare soluzioni all’uopo, lo scorso primo ottobre, si è riunito il consiglio circoscrizionale del quartiere, con la partecipazione dell’assessore al bilancio della Regione Piemonte, la signora Giovanna Quaglia, e del coordinatore alla viabilità Massimiliano Miano. In questa sede – ma di ciò non siamo certi/e, ché non siam soliti frequentar certi postacci – potrebbe essere stata rilanciata la proposta dell’abbattimento del muro di cinta di El Paso, come pure l’asfaltazione degli orti, per fare largo a un piccolo raccordo stradale a sud del cavalcavia di via Passo Buole.
Il giorno dieci ottobre, esce un articolo su La Stampa che menziona questa imminente possibilità. Ma solo due giorni dopo, sempre attraverso La Busiarda, appare un articolo di smentita. Di certo sappiamo, che l’allargamento di tale strada, con conseguente scomparsa del muro di cinta e del cortile di El Paso, era già in previsione dal 2005, inserito nel programma di riqualificazione pro Olimpiadi 2006.
Siamo nel 2012 e ci teniamo a chiarire: non siamo mai stati, non siamo, mai saremo, disposti né al mercanteggio, né al ricatto delle nostre esistenze.
Riqualificazione, rilancio dello sviluppo, sicurezza: non accetteremo alcuna imposizione, né presteremo in alcun modo il fianco ad alcuno dei vostri mortiferi progetti. Anzi…
Contro la vostra famelica rapacità, le betoniere, i vostri alienanti centri commerciali, le vostre città-galere ad alta velocità: difenderemo il nostro territorio… Non solo un muretto, non solo un orto, ma ciò che rappresentano: la possibilità di chi vive un territorio, un quartiere, di decidere come farlo senza essere in balia di speculatori, politicanti e dei loro sbirri.

Mirafiori-Lingotto, 6 novembre 2012
El Paso Occupato
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[Roma] Aperitivo benefit NOTAV al Rebel Store

Aperitivo e proiezione video per sostenere le spese legali di due compagni fermati ad agosto in val di susa dalle truppe di occupazione. Tutte le compagne ed i compagni sono invitati a partecipare e sostenere chi combatte quotidianamente contro le nocività di questo sistema.

ORE 18: APERITIVO DALLA KALABRIFORNIA E PROIEZIONE DEL VIDEO AUTOPRODOTTO DALLA TEPPA A GENOVA “DETOUR“.

GIOVEDI 8 NOVEMBRE ORE 18

REBEL STORE – SAN LORENZO VIA DEI VOLSCI 41 ROMA

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[Roma] Canzone clandestina – cena spettacolo allo spazio anarchico 19 luglio.

Il Gruppo Anarchico “C. Cafiero” organizza l’iniziativa di autofinanziamento del Laboratorio Permanente Roma con la cena spettacolo “Canzone clandestina”, presso lo Spazio anarchico “19 Luglio” a Garbatella, Via Rocco da Cesinale 18  venerdì 2 e sabato 3 novembre dalle ore 20:00.

La sottoscrizione è rigorosamente libera, ma necessaria per il sostentamento dell’iniziativa.
Questa è la prima iniziativa di autofinanziamento di questo progetto di formazione teatrale, politica e umana intrapreso, da un anno a questa parte, a Roma.

Il laboratorio è come sempre gratuito e aperto a tutti, senza limiti di età e di esperienza.

Canzone clandestina è la prima autoproduzione, messa in scena di canzoni e poesie scritte dall’autore e regista Michelangelo Ricci, venti attori sul palco e tra i tavoli che si muovono intorno ad una precisa domanda:

“PERCHE’? SE SON UOMO COME TE A QUESTO MONDO…PERCHE’ TU STAI IN CIMA ED IO STO SUL FONDO?”

Dato il numero limitato di posti a disposizione, la prenotazione è vivamente consigliata: Vania 347/2645540

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Benevento – Per un pugno di ortaggi

riceviamo e diffondiamo:

Per un Pugno di ortaggi… alias come il trasporto di cipolle, peperoni e zucchine possa diventare reato!

Questa mattina, 26 ottobre 2012, alla vigilia della partecipata manifestazione studentesca che ha attraversato Benevento, una pattuglia dei Carabinieri insieme ad altri due agenti in borghese, ha fermato due giovani (di cui uno minorenne) ad una fermata dell’autobus sul viale Mellusi. Dopo le varie frasi provocatorie di rito, uno dei due giovani è stato perquisito in strada e GLI E’ STATA SEQUESTRATA UNA BUSTA DI ORTAGGI (cipolle, zucchine, peperoni…) che servivano per preparare la cena serale d’autofinanziamento per il Centro Studi Libertari “Pensiero e Volontà”.

Ci teniamo ad informare la città, di come purtroppo, ancora una volta, chi pratica (realmente) autogestione ed autorganizzazione continui ad essere nel mirino dell’arroganza poliziesca posta a difesa di Stato e Capitalismo.

Oggi è stato il turno di questi due giovani, ma tutti sanno che non si tratta di episodi isolati: sanno bene in che consistono le molestie poliziesche tutti gli esclusi, i poveri, gli sfruttati, i sovversivi che quotidianamente devono farci i conti…

Il giorno prima lo stesso compagno è stato strattonato dalla Digos, rischiando di finire in Questura, per essersi rifiutato di consegnargli uno dei volantini che stava distribuendo durante le lezioni pubbliche tenute in piazza Matteotti.

Ecco così che, mentre gli “intellettuali” e i “professori” pontificano in piazza sulla Democrazia, cercando di arginare la formazione di una coscienza sovversiva negli studenti, condannandoli inevitabilmente alla solita fine dei cittadini rassegnati, la Democrazia stessa assuma le sue forme reali nelle strade attraverso l’arroganza e la violenza istituzionalizzata e garantita dalla Legge.

Naturalmente sarà (speriamo non solo) un boccone di zucchine e peperoni sottrattici andatogli di traverso, che ce li toglierà dalle palle, ma sicuramente la solita risata di uno sfruttato che li seppellirà!

La repressione non impedirà né le cene né le lotte!

Gruppo Anarchico “Senza Patria”

http://gaa.noblogs.org

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Proposta per la realizzazione di una biblioteca virtuale gratuita per i/le detenuti/e

E’ ormai da qualche anno che portiamo avanti un’attività di raccolta e spedizione di libri, riviste e opuscoli all’interno delle carceri.
Questo lavoro è nato nel 2005 a seguito della campagna “un libro in più di Castelli” quando l’allora ministro di giustizia Castelli provò a limitare il numero di libri che potevano essere tenuti in cella nel carcere di Biella. Si sviluppò allora un’attività di sensibilizzazione e di contrasto al provvedimento che interessò svariate città d’Italia, basata sulla raccolta e la spedizione di libri nel carcere piemontese. Il provvedimento di limitazione dei libri venne poi ritirato.
Alla campagna aderirono anche alcune case editrici che misero a disposizioni numerosi titoli e che negli anni a seguire, insieme ad altri materiali, hanno costituito un fondo di documentazione che abbiamo reso disponibile in carcere mediante un catalogo periodicamente inviato ai detenuti con cui eravamo in contatto o a chi ne faceva richiesta.

Ad oggi questa attività continua e crediamo possa essere ulteriormente migliorata se allargata ad altre realtà che vogliano condividere questo lavoro. Anzitutto si tratta di rendere disponibili dei titoli ed un recapito postale, affinché possano essere inseriti nel catalogo.
Oltre ad una maggiore disponibilità e varietà di testi, l’allargamento di questo lavoro permette di distribuire le richieste in modo che non gravino su di una sola realtà dati i limiti di spazio ove raccogliere i testi ed economici per sostenere le spedizioni.

Riteniamo importante svolgere, sviluppare e consolidare questa attività perché lo studio e la lettura sono strumenti fondamentali di crescita, di autonomia e di coscienza politica.
In carcere il tempo a disposizione per leggere non manca. Inoltre la scarsità in quantità e qualità di testi nelle biblioteche penitenziarie, le difficoltà ad accedervi ove queste sono presenti, la mancanza di testi in lingue diverse dall’italiano e in molti casi anche le difficoltà economiche ostacolano la lettura che specialmente in carcere, e tanto più nelle sezioni speciali e di isolamento, rappresentano un essenziale strumento di “evasione” e dunque di sopravvivenza psicologica.
Una conferma di tale valenza la troviamo nell’instancabile volontà statale (del ministero e della direzione carceraria) di restringere l’accesso alla lettura e all’informazione che, come nel 2005 nel carcere di Biella, si ripresenta oggi attraverso una disposizione che inserisce ulteriori e drastiche limitazioni alla possibilità di leggere e informarsi per i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario (circolare DAP 16/11/2011 n. 8845/2011).
Una volontà che, in assenza di iniziative di contrasto, sarà destinata ad estendersi progressivamente ai circuiti di Alta Sicurezza per poi diventare un ulteriore strumento arbitrario nelle mani della direzione penitenziaria per “rieducare” il detenuto con il “premio” della lettura piuttosto che con la “punizione” espressa nel suo divieto. Già oggi esiste una forte discrezionalità in tal senso per cui a seconda del carcere o della sezione detentiva esistono differenze nell’applicazione del regolamento per cui, ad esempio, i libri vengono pesati insieme al cibo e al vestiario oppure l’invio di un libro può essere considerato come un “pacco” diminuendo rispettivamente la quantità di cibo o vestiti che possono essere portati mensilmente o il numero dei pacchi che è possibile inviare mensilmente.

L’attività proposta vuole anche essere un occasione per costruire relazioni ed estendere concretamente la solidarietà e il sostegno a chi è detenuto/a a seguito di lotte contro la devastazione ambientale, contro lo sfruttamento e i licenziamenti, contro il razzismo e le spinte reazionarie e neofasciste, lotte rivendicative e di emancipazione sociale e a tutti/e coloro che fanno della galera un terreno di lotta.

Per aderire alla proposta scrivete all’indirizzo e-mail sottostante indicando i titoli dei libri messi a disposizione (completi di autore, casa editrice e numero di copie), un recapito postale al quale potranno fare riferimento le richieste, un indirizzo e-mail per mantenere i contatti.
Nell’auspicio che tale proposta possa avere un’ampia circolazione invitiamo tutti/e coloro che l’hanno ricevuta di inviarla a chi reputano possa interessare.

Milano, settembre 2012
OLGa
olga2005@autistici.org

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[CR] Due giorni contro la repressione al Kavarna

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Opuscolo di sviluppo del manifesto contro la legalizzazione degli spazi occupati.

fonte: Indymedia Italia

Dopo aver letto il terribile comunicato del Lambretta, firmato da pressochè tutti i centri sociali di Milano e hinterland ( http://lombardia.indymedia.org/node/48028 ), penso sia necessario approfondire la questione.
Cos’è uno spazio occupato? Un fine o un mezzo?
Che un collettivo di gestione di un ARCI sostenga queste posizioni non mi stupisce e non mi dispiace, è nella loro natura, hanno preso una scelta e la portano avanti.
Ma che venga portata avanti da centri sociali più o meno antagonisti (non rivoluzionari perchè mi pare una forzatura) è quanto meno discutibile.
Qui sotto copio incollo prima il link poi l’intero testo di un opuscolo datato 1994 in cui a Torino alcuni compagni approfondiscono questo delicato tema.
Consiglio la lettura specialmente ai firmatari del suddetto penoso comunicato:

http://www.ecn.org/filiarmonici/csoa-1994.html

Opuscolo di sviluppo del manifesto contro la legalizzazione degli spazi occupati
El Paso Occupato – Via Passo Buole 47 – Torino; Barocchio Occupato – Str. Barocchio 27 – Grugliasco To
Torino, febbraio 1994 (notare la data n.d.r.)

Introduzione: vivre libres ou mourir

Il nostro sogno è vivere liberi, distruggere ogni forma di potere costituito ed ogni gerarchia che ne sono la negazione.

Per noi la libertà non può essere separata dal piacere. Siamo però disposti a sforzi titanici per realizzare libertà e piacere. Consapevoli che non esiste libertà nel sacrificio e nell’immolazione.

In questo senso l’esperienza più completa che oggi ci prendiamo il lusso di vivere è quella dell’autogestione cui fa spazio l’azione diretta, intesa come esperienza aperta, collettiva, estendibile, che se ne infischia dei recinti tracciati dallo Stato tra legalità e illegalità.

L’occupazione degli spazi abbandonati riunisce queste prerogative ed apre la strada, nel modo più corretto, all’autogestione. Lo sviluppo dell’autogestione della nostra vita non è praticabile senza sovvertire l’esistente.

L’autogestione

é la forma di gestione dell’anarchia. II suo cuore pulsante.

Autogestione è la possibilità di stabilire secondo il principio della responsabilità individuale ed il metodo dell’unanimità (non certo quello – democratico – della maggioranza), le regole della propria esistenza.

Autogestione per offrirsi la possibilità di riunificare sfere separate dell’esperienza umana: pensiero e azione, attività manuale e attività intellettuale, per riconquistare quella completezza che ci è stata sottratta dalla specializzazione delle attività imposta dalla cultura del potere. Perché l’autogestione è la forza prima dell’occupazione ed è la premessa indispensabile alla sua evoluzione in senso sovversivo.

Fin dal lontano 1988 gli occupanti di El Paso scrivevano sul bollettino dei Centri Sociali che gli occupanti si ponevano come soggetti della loro azione, primi fruitori, primi ad averne soddisfazione. L’occupazione parte dalla necessità di soddisfare bisogni reali di casa – spazio espressivo – socialità – non mercificazione – estraneità alle regole alienanti delle istituzioni.

Solo questo interesse diretto, il desiderio di concretizzare queste forti aspirazioni negate dà la forza agli occupanti di superare le fasi repressive, di passare di sgombero in sgombero, di denuncia in denuncia fino a riuscire ad aprirsi uno spazio ed iniziare realmente l’autogestione collettiva. E di sopportare le mille angherie del potere contro i posti occupati (controlli-irruzioni-nuove denunce).

II fatto che gli occupanti rivolgano egoisticamente prima di tutto verso di sé i risultati delle loro azioni e dell’autogestione è la migliore garanzia di genuinità del loro discorso. Chi vorrà fare altrettanto trova così già sperimentata una strada nuova. In questo modo senza dover rinunciare alla lotta politica o meglio alla lotta per la distruzione della politica, gli occupanti si negano come avanguardia militante staccata e si propongono come primi fruitori del loro operato, mettendosi in gioco personalmente.

La bontà del loro esperimento di vita e la carica sovversiva delle loro proposte si vedranno dagli esiti dell’autogestione dentro e fuori dagli squatt.

Gli occupanti personalmente coinvolti, non più soltanto sul piano dell’astrazione ideologica – come lo erano i militanti dei collettivi politici – avranno così mille buone ragioni per combattere a fondo per la realizzazione dei progetti autogestionari che li vedono protagonisti di un immediato miglioramento della qualità della loro vita dovuto alla riappropriazione di spazi di libertà sottratti dal potere.

Si realizza così il superamento completo in senso sovversivo della triste ed anacronistica figura del militante politico-ideologico degli anni ’70 incompatibile nella dinamica dell’autogestione. E con la sua scomparsa trovano anche vita difficile le pallide figure dei gregari e degli omo-massa di manovra di piazza, futuri voti di sinistra. Una rottura netta con l’alienazione politica di matrice marxista-leninista che ha prodotto i ben noti disastri degli anni ’70 e ’80.

Uno schiaffo in faccia alla massificazione che presuppone delega e gerarchia, divisioni di ruoli ed organizzazione rigida. Un schiaffo al quantitativo come criterio centrale di valutazione di tutte le iniziative e le idee.

Concetto quantitativo ‘con ogni mezzo necessario’ che sta alla base della tanto propagandata politica dell’aggregazione.

L’autogestione rinchiusa muore

L’autogestione è la premessa indispensabile per lo sviluppo di una pratica sovversiva della socialità. Ciò si evidenzia con forza nelle occupazioni.

Ma l’autogestione costretta tra le mura di una occupazione muore.

L’idea e la pratica sovversiva libertaria non si possono esaurire nella conservazione di uno spazio, anche se occupato. II loro sviluppo esclude una dimensione statica.

L’idea stessa di autogestione non è concepibile se non estesa a tutti gli aspetti della vita e non può accettare la reclusione tra quattro mura. L’autogestione reclusa diventa inevitabilmente autogestione della miseria, autogestione del ghetto. Aggrapparsi alle briciole cadute dal banchetto dei potenti quando c’è tutto da riconquistare è un discorso di meschina conservazione che ci è estraneo, che è congeniale invece ai piani di controllo e di recupero del potere. Le esperienze dei centri sociali e delle case occupate degli anni ’80 in Italia e le esperienze internazionali, ci danno un quadro chiaro della triste fine toccata alle realtà autogestite che si sono chiuse su se stesse. Le tappe percorse nell’autospegnimento sono ricorrenti: gran scarsità di attività rivolte verso l’esterno. Soprattutto nessuna attività politica. Qualunque attività politica, vissuta come inizio di corruzione, viene demonizzata e identificata – non con tutti i torti – come inutile attività sacrificale.

Ci si specializza a calcare altre gabbie: quella della creatività ‘artistica’-artigianale, l’autocostruzione, l’autoproduzione, il lavoro collettivo o il divertimento: sesso, droga, rock’n’roll.

La caratteristica e la specializzazione degli autogestori in una o in alcune di queste attività separate dal resto del vissuta che non viene affrontato se non, quando ci si sbatte il muso, individualmente. Fra le prime forme ’politiche’ a cadere è l’assemblea: un’inutile perdita di tempo. Superflua in aggruppamenti di pochi individui, strumentalizzabile da loquaci capetti, mai esauriente a causa dei suoi stessi limiti, l’assemblea rimane uno strumento di confronto e decisione collettiva non sostituibile negli squat popolosi e ricchi di iniziative. é infatti indispensabile ai capi in formazione evitare troppi confronti, specialmente collettivi, per poter imporre le loro iniziative come fatto compiuto.

I gregari, da parte loro, sono ben lieti di non dover perdere tempo in un frustrante luogo, dove si esprimono altri, che li vede sempre muti e passivi.

La delega si sviluppa come naturale modo di rapportarsi, con essa la calunnia e il mugugno come valvole di sfogo del malcontento. Con la chiusura delle attività rivolte all’esterno prevale lo spirito di banda, naturalmente gerarchico. E la divisione dei ruoli secondo questa gerarchia. Si creano così capi e sottocapi e semplici comparse. Veri capi che decidono senza neanche consultare gli altri ma che ‘annusano’ l’aria che tira. L’applicazione delle decisioni dei capi tocca a sottocapi rintracciabili nel gruppo dei fedelissimi che ruota attorno al capo.

Anche in situazioni di sovraffollamento prevale il rapporta amicale – qua siamo tutti amici – che porta come conseguenza la formazione quasi immediata di rapporti mafiosi. Non c’è più infatti un accordo comune cui ogni individuo aderisce perché l’ha scelto liberamente discutendone con gli altri e approvandolo secondo il metodo dell’unanimità. Ma tutta è ammesso da chi è amico dell’Amico, nulla da chi cade in disgrazia o è considerato esterno alla banda. Si perpetrano privilegi (miserabili) e soprusi, senza nessuna possibilità di far valere le proprie ragioni in un momento di confronto collettivo che non esiste più. Gli unici modi per farsi valere sono la forza e l’intrigo.

Esplodono all’interno dello squat tutte le tensioni individuali accumulate all’esterno e sul posto. Non vi è più nessuna possibilità di rovesciarle fuori, da dove provengono, mancando attività ed azioni rivolte fuori. Se sopravvivono attività per l’esterno si tratta di cose ‘tranquille’: produzioni artigianali scadenti e superflue, sottoservizi sociali erogati con un entusiasmo paragonabile solo a quello dei parastatali, prevalentemente spettacolini.

Tutto viene fatto pagare, non per alimentare nuove iniziative d’autogestione, ma per mantenere i gestori dell”autogestione’. Costante impoverimento d’idee che non hanno più confronto se non nel privato. Ritrovo solo su attività rituali, risalenti all’epoca in cui nel gruppo c’era un feeling, ripetute stancamente. Evidente permanenza nello squat per incapacità di crearsi altre, più ambite, opportunità e non per scelta.

Tendenza, col passar del tempo, a privatizzare tutti gli spazi ed adattare quelli che non servono per abitazione a simpatiche botteghe con le quali si cerca di sbarcare il lunario. Trasformazione del posto occupato in un’immensa bottega degradata su cui vorrebbero vivere tutti gli occupanti, coltivando l’illusione di sottrarsi al confronto con il resto del mondo. A questo punto non si può neanche parlare di autogestione della sfiga ma solo di sfiga.

All’interno dell’occupazione si sono riprodotti, scimmiottati malamente, tutti i meccanismi dell’alienazione, e dell’autoritarismo, dello sfruttamento e del semplice conformismo, da cui si sfuggiva occupando. Lo squatter, prima rinuncia all’azione diretta, appagato da quella che l’ha portato alla conquista del posto. Credendo di poter vivere nell’isola felice rinuncia man mano all’autogestione. Ma lo squatt perdendo l’autogestione perde il suo spirito, la sua identità. Non è che la spazzatura dello stato delle cose.

L’azione diretta

Com’è noto l’atto dell’occupazione di uno stabile è una forma dell’azione diretta: illegale – collettiva – condotta apertamente che porta un gruppo di individui a riconquistarsi uno spazio vitale precedentemente sottratto alla collettività dal potere. La pratica anarchica dell’azione diretta ravviva l’autogestione delle occupazioni esistenti conferendo al popolo degli squat la giusta dimensione dinamica che può trasformare le occupazioni da ricettacolo di tutte le miserie di tutti i diseredati, avanzo dello stato delle cose in esperienza dilagante di liberazione. Noi che coltiviamo il gusto dell’avventura ed il libero scorrere delle passioni vediamo che solo attraverso la pratica continuata dell’azione diretta, saltando fuori dalle quattro mura, superando con indifferenza i confini del lecito imposti dallo Stato, riusciamo ad aprire nuovi spazi all’autogestione della nostra vita al di là dagli squat, ed ad infondere nuova carica alle occupazioni esistenti. Insomma a diffondere qui ed ora la pratica dell’autogestione generalizzata.

L’etichetta dell’autogestione

Nel variegato panorama delle occupazioni in Italia spicca tutta una serie di Centri Sociali per la loro singolare interpretazione dell’autogestione. In questi Centri prevale nettamente l’alienazione politica sulle altre forme di alienazione (alienazione artistica, esistenziale, produttiva). Sono i Centri dove ancora si trascinano gli zombi della militanza sacrificale. La loro matrice è marxista-leninista con qua e là qualche coloritura stalinista o maoista. Qui, e solo qui, l’ideologia non è mai morta, il tempo si è fermato, circolano barbe, eskimo, santini del Che e falci e martello in 3D.

L’unico reale motivo per cui sono sorti è l’aggregazione di masse su obbiettivi politici decisi dai vertici delle organizzazioni politiche cui fanno capo. Non stupisce infatti che questi Centri non presentino che forme larvali d’autogestione: un discorso che non si pratica. Buono però per essere sventolato come una bandiera. Alcuni di questi CSA spiccano per una gestione strumentale, spettacolarizzata e centralizzata della musica. Accomodantissimi con la mercificazione ed il rock-star system.

Se l’obbiettivo è aggregare gente, è meglio che suoni il Gruppo famoso, ancorché puttane al servizio dei capitali di qualche grande multinazionale discografica, verrà più gente. E che il Grande Gruppo suoni nel Grande Centro Sociale della metropoli dove, … verrà più gente.

Scarsa e saltuaria pratica dell’autocostruzione ed altrettanto scarsa, saltuaria e ritardata pratica dell’autoproduzione. Autoproduzioni scimmiottate, con notevolissimo ritardo da quelle dei libertari. Ma subito ‘ammodernate’ con audaci snellimenti in linea con il pensiero macchiavellico-gesuitico che giustifica ogni mezzo per raggiungere il supremo fine. Autoproduzioni ed autogestioni della musica impantanate nel business, nella mercificazione, nella pubblicità. Che portano il marchio sterilizzante di tutte le attività nate strumentalmente per volontà superiore. I CSA che fanno dell’autogestione la loro sigla non sono affatto immuni dalla richiesta di sovvenzionamenti statali e dalla richiesta di servizi allo Stato (ristrutturazioni, manutenzioni, forniture di materiali), per fornire altri servizi alla collettività, s’intende. Cosi ci spieghiamo meglio l’approccio turistico alle tematiche dell’autocostruzione.

Buona cosa sarebbe che i Centri Sociali sovvenzionati dallo Stato Italiano uscissero dall’equivoco rendendo noto a tutti che la lettera finale della loro sigla sta per Assistito e non per Autogestito. Ma soprattutto in molti CSA sopravvive un sistema decisionale verticale basato sulla gerarchia e sulla delega che nulla hanno da spartire con l’autogestione. Questi Centri si preoccupano ben poco della diffusione della pratica autogestionaria ma curano molto la politica ‘di partito’ predeterminata dai vertici dell’organizzazione, dove il Centro Sociale svolge il ruolo di cinghia di trasmissione. La centralizzazione di tutto nel Grande Centro Sociale produce effetti devastanti di impoverimento della periferia, sicché lo slogan 10-100-1000 occupazioni suona come una betta.

Molti CSA infine, sono più che disponibili ad una pratica autoriformista e compromissoria con il potere divenuto, da controparte, interlocutore dal quale bramano sicurezze, riconoscimenti, garanzie, contratti, diritti e soldi. Specialmente se una parte istituzionale – i partiti di sinistra – li appoggia (seppure per innominabili motivi di propaganda elettorale). Risbuca come uno spettro il mito dell’Unità su comuni basi ideologiche. Fingendo di non sapere si arriva a gabellare la legalizzazione – che nel resto dell’Europa occidentale è stata la fine delle occupazioni – come una vittoria politica…

In effetti, con una buona dose di cecità, ci si può illudere che le lotte antagoniste si possano condurre anche da Centri legalizzati, sovvenzionati, ristrutturati, regolamentati e controllati dallo Stato.

Quella che sicuramente non si può sviluppare in simili condizioni è l’autogestione.

L’autogestione richiede la massima libertà per poter crescere. E l’autogestione praticata dagli occupanti è l’unica base coerente per uno sviluppo della sovversione fuori e dentro dagli squat.

La spettacolarizzazione

Dalla loro nascita fino a pochi mesi fa, le gesta degli spazi occupati in Italia sono sempre state censurate dalla grande informazione asservita (stampa, radio, TV). La loro spettacolarizzazione veniva diffusa solo per produrre servizi riempitivi e di colore controculturale o come episodi di cronaca nera. L’immagine dello squatter gettata in pasto alle masse oscillava dal variopinto giovine punk al ‘terrorista’ in erba, autonomo o anarchico. Su tutti il sospetto di essere solo dei drogati. Quando gli occupanti con le loro azioni mettevano in crisi qualche aspetto dello stato di fatto allora si ricorreva alla seconda immagine, poco rassicurante, di eredi degli estremisti picchiatori degli anni ’70, pazzi arrabbiati, completamente isolati dal contesto civile. Altrimenti, d’estate compariva qualche servizio di colore su questi strani ragazzi che non vogliono saperne di lavorare, si bucano le orecchie, si tatuare come animali ed ascoltano il rock. Sempre aperta, con iniziale stupore degli stessi occupanti, la rubrica degli spettacoli sulla grande stampa.

La democratica apertura agli aspetti spettacolari-culturali degli spazi sociali è un dato che fa riflettere. Attraverso la grande stampa, gli spazi sociali hanno potuto presentare alle grandi masse la faccia spettacolare-assistenziale vedendo sistematicamente censurata o travisata tutto il resto. Una mutilazione significativa e non casuale nell’immaginario collettivo. Questa situazione è rimasta immutata per anni. Ma le cose cambiano. Da qualche tempo, e precisamente da quando il CSA Leoncavallo è stato messo sotto sgombero, abbiamo assistito al disgelo di grandi e meno grandi organi di manipolazione del consenso in mano alla sinistra istituzionale, nei confronti della sinistra estrema, prevalentemente Autonomia, presente nei CSA. Due esempi: i servizi fiume sui bravi ragazzi del Leonka su RAI3, il Manifesto che si trasforma in tribuna dell’Autonomia sulla questione dei Centri Sociali.

Cos’è successo?

Da una parte la sinistra istituzionale, PDS, Rifondazione, Rete, Verdi, ha deciso di iniziare la sua campagna elettorale contro la Lega vittoriosa a Milano utilizzando lo sgombero del Leoncavallo.

Si tratta di un caso esemplare di opportunismo politico degli ex-PCI che nell’89, al governo della città insieme al compagno Craxi, avevano sgomberato militarmente e raso al suolo gran parte del Leoncavallo. Ma il ghiotto spunto antileghista ha fatto si che mutasse improvvisamente la valutazione politica sui Centri Sociali. Da parte dell’Autonomia, che dirige il Leoncavallo, si affianca alla scelta di salvare ‘con ogni mezzo necessario’ il più antico e rinomato Centro Sociale d’Italia, l’evidente decisione – a livelli di vertice – di ricercare una qualche legittimazione dallo Stato. A Milano come a Roma l’Autonomia cerca la forza politica necessaria per strappare un qualche riconoscimento allo Stato. Ma questa forza non c’è ed è necessario stringere alleanze e formare schieramenti. Ed ecco risbucare un antico arnese che vien fuori ciclicamente quando l’estrema sinistra è in crisi di idee e progetti. L’alleanza su basi ideologiche con la sinistra istituzionale.

A Roma l’abbraccio osceno porta i CSA a raccogliere firme per la legalizzazione insieme all’ARCI ed ai boy-scout e ad appoggiare Rutelli in campagna elettorale. Ma è a Milano che il ‘Fronte popolare’ unito attorno al Leoncavallo trova la sua espressione più compiuta nello spettacolo. Interviste, tavole rotonde, servizi interminabili, cortei, presidi, contropresidi, artisti, saltimbanchi, pagliacci, martiri, premi Oscar, intellettuali progressisti, ghisa e poliziotti, paginoni di giornali e mamme preoccupate. Fiction e realtà si miscelano e tutto quanto fa spettacolo, che tutto tramuta in spettacolo.

E con la spettacolarizzazione passa la sterilizzazione.

Tutto succede in un grande spettacolo, e lo spettacolo domina la vita.

II Centro Sociale che aveva scelto come mezzo per difendersi le molotov nell’89 ora sceglie di difendersi con i TG dei suoi sgomberatori. E le condizioni sono durissime. Due mesi di spettacolo Leoncavallo lo chiudono in un vicolo cieco definito via via dai compagni della sinistra istituzionale. II Centro trasloca provvisoriamente all’estrema periferia sottoscrivendo condizioni molto limitative qualora fossero applicate. E quando il Leonka sgarra uscendo dal copione concordato con la sinistra partitica e succede qualcosa che non piace ai compagni padroni dell’informazione, arrivano le bacchettate prima ed il silenzio della censura dopo. Intanto per mesi è passata su tutte le TV e tutti i giornali l’immagine sconsolante imposta come prototipo del Centro Sociale. Quella che piace ai partiti, Centri Sociali come luogo di erogazione di servizi per emarginati, extracomunitari di colore, luogo del reinserimento dei casi pietosi, luogo del ‘tempo libero’, degli sfigati, contenitore e riproduttore di sottocultura giovanile, centro d’aggregazione di tensioni che evidentemente vi si sublimano, nobilitato solo dal fatto d’essere di sinistra e di costituire, in definitiva, un serbatoio di voti e di quadri per i partiti di sinistra.

In sostanza Centro Sociale come luogo assistito e supplementare della riproduzione del conformismo e della normalizzazione attraverso la somministrazione di servizi di cui è carente lo Stato rivolto a quei soggetti marginali che moltiplicandosi nelle grandi città potrebbero divenire un problema per l’ordine pubblico.

Questo, forse, l’aspetto più inquietante della spettacolarizzazione attuato da tutta la sinistra unita sul Leoncavallo.

La legalizzazione all’estero

Nonostante la diversità di evoluzione e di storia delle occupazioni del Nord Europa, alcune osservazioni sono possibili, soprattutto sul rapporto intercorso tra il “movimento” degli squatter ed il potere. La legalizzazione, uno dei più efficaci rimedi contro i disturbi della sovversione, è stata utilizzata, soprattutto dai regimi social-democratici, per smorzare le spinte più radicali e apertamente sovversive.

Già anni fa il piano TREVI, congeniato da vari ministri degli Interni della CEE contro ogni sovversione sociale, consigliava due strade per risolvere il problema degli squat: l’intervento diretto della forza pubblica oppure il ricorso a “…processi graduali di legalizzazione / integrazione” (da Um. Nova, 28/11/93). Ecco in breve alcuni dei fenomeni che la legalizzazione ha prodotto nelle grandi città europee, Amburgo, Berlino, Ginevra, Parigi, Zurigo:

Separazione negli intenti e soprattutto nella pratica fra squatter e legalizzati. Le case legalizzate, normalmente, non danno la solidarietà a quelle illegali minacciate di sgombero. Una volta conquistato l’alloggio e il proprio spazio vitale attraverso un contratto con il proprietario, la tensione degli ex-occupanti si smorza, questi si vedono meno sovente alle manifestazioni e alle lotte, il ménage domestico prende il sopravvento sulla voglia di agire. A Berlino e Amburgo nel movimento di occupazioni dei primi anni ’80 gli squat illegali si sono via via ridotti di numero fino a scomparire, congiuntamente anche le lotte più radicali si diradano. I contratti vincolano gli occupanti. Le case sotto contratto vengono ristrutturata secondo accordi con il proprietario, graffiti e facciate vengono ridipinti, il proprietario esige il pagamento di un affitto. Lo squatter si trasforma da potenziale sovversivo a normalissimo affittuario assistito. Nasce il business alternativo.

Da Berlino a Ginevra sono molti i Centri Sociali legalizzati che pagano i loro baristi, chi attacchina i manifesti, il cassiere che stacca i biglietti. Business della musica, dello spettacolo, delle feste: anche nei locali più alternativi gruppi teatrali, cinefili e musicali, chiedono sovvenzionamenti al Comune calpestando allegramente per un pugno di soldi i principi elementari di indipendenza, autofinanziamento ed autogestione, pur mantenendo l’etichetta alternativa. Inoltre non è raro che accettino di pagare le varie gabelle che lo Stato impone su musica e spettacolo.

Isolamento dei discorsi più radicali.

Iniziative ed azioni, manifestazioni e lotte vengono proposte ad un movimento già appagato dall’illusione di aver strappato qualche metro quadrato ai pescecani. Nella pratica dell’azione diretta il movimento infatti si esprime in scadenze fisse e spettacolarizzate; un esempio eclatante è il rito sportivo del Primo Maggio berlinese. Ad Amburgo, nonostante la rinomata radicalità delle azioni di Hafenstrasse, gli squat sono tutti legalizzati. Chi occupa viene sgomberato in 24 are. Alcuni squatter sono arrivati ad affrontare il problema abitativo vivendo in roulotte. La stessa soluzione e stata adottata a Bema: Zaffaraya è un campo di roulotte e camion alla periferia abitato da una ventina di squatter.

Le responsabilità politiche di chi vuole la legalizzazione

Negli ultimi tempi si sono evidenziati per la loro presunta simpatia per i Centri Sociali quasi tutti i partiti di sinistra; ciò naturalmente è accaduto soprattutto per l’antagonismo strumentale che hanno voluto far apparire nei confronti della Destra (il mostro di turno da combattere, dimenticando il resto e votando a sinistra “turandosi il naso”), Destra la cui odiosa e cristallina posizione nei confronti dei CSA è a tutti ben nota.

Non è un caso se non parlano di occupazioni ma di centri sociali: questo termine terrificante, dal sapore di realpolitik burocratico-socialista, comprende senza discriminazione tutti i luoghi che, nell’interpretazione istituzionale e agli occhi della cosiddetta società civile, svolgono funzioni di pubblica utilità: dai centri anziani alle cooperative di ceramisti, dai pronto-intervento per tossici alle sale prova di quartiere. Tutti Centri Sociali. Su concetti di tale ambiguità la Sinistra ha sbracato con tutti i suoi mezzi sproloquiando di solidarietà a tutto spiano ma EVITANDO SEMPRE DI PARLARE DI OCCUPAZIONE. Conseguentemente a questo atteggiamento le giunte rosse hanno continuato a sgomberare ogni posto illegale non appena guadagnata la poltrona: da Genova a Roma, in un prosieguo ideale del buon governo di sinistra che ben conoscono tutti gli sgomberati negli ultimi 10 anni dalle giunte rosse a Torino, Milano, Bologna, Genova etc. etc. Alla faccia dei fascisti!!

Dicevamo dunque che non a caso non si parla di occupazioni: i partiti di sinistra (Rifondazione, PDS, Verdi, Rete) sono disposti a tollerare i C.S. solo ed esclusivamente se questi hanno una loro funzione riconosciuta dal consorzio civile e se sono legittimati dalla soddisfazione dei fruitori dei loro servizi, in modo da non perdere consensi elettorali ed evitando l’accusa di tollerare situazioni estranee all’ordine vigente o addirittura nemiche dello stesso.

In poche parole, il Potere scende a patti tollerando l’esistenza fisica di quattro mura da lui non direttamente concesse solo a patto che i modi e gli intenti finali provenienti dalla controparte non siano in contrasto con lo status quo; e quindi ben vengano i servizi gratuiti e volontari che sopperiscono alle lacune assistenziali dello Stato; ben vengano le opere sociali che se da una parte legittimano l’esistenza dei C.S. verso il popolo, dall’altra legittimano il Potere che le permette ed il suo buon governo con la cui collaborazione si può migliorare il nostro modo di vita in questo stato senza mai rischiare di metterne in pericolo l’esistenza vera e propria.

Ma incredibilmente non sono -come sarebbe logico pensare- solo i partiti del recupero che spingono per la legalizzazione, per la pacifica convivenza, per un rientro delle istanze di rivolta in categorie più assimilabili dal Potere, ma anche alcune realtà specifiche dell’area che, sia pur con le dovute riserve, chiameremo di “movimento”, in particolare dell’area della cosiddetta autonomia. In questo caso sembra che le istanze di legalizzazione e/o conciliazione con le istituzioni vadano di pari passo con il consolidamento delle proprie sedi, cioè con il riconoscimento di un potere o contropotere che dir si voglia. È una conseguenza diretta di un modo di vivere le occupazioni che poco ha a che vedere con i propri desideri e la voglia di liberarsi, ma che deriva da una metodologia politica che ha già mostrato tutti i propri mostruosi fallimenti anche sul piano individuale.

Per capire a fondo quali sono le responsabilità di fronte al suddetto movimento della legalizzazione, teniamo a mente qualche particolare:

1) Per loro il C.S. si legittima solo attraverso una fruizione di massa.

2) Messaggi, modi di comunicazione, utenza e soprattutto attività sono stabilite in stretta relazione con l’esistenza di precise classi sociali (le stesse che il Potere fornisce): proletari (!?!), studenti, immigrati di colore.

3) Ogni dimensione rivoluzionaria individuale è ignorata, ovvero, la propria vita non cambia assolutamente ma si divide fra il tempo del “privato” ed il tempo “libero” militante.

4) Scomparsa totale anche dell’immaginario rivoluzionario: niente più “Non credere ai media” ma “li usiamo perché il messaggio è forte”; niente più “Per avere un futuro bisogna prima sognarlo”, perché è il momento di essere concreti, c’è sempre una massa in piazza a cui dare indicazioni precise; niente più “Contro la mafia dei partiti” perché non tutti i partiti sono uguali, ci sono partiti di sinistra con amici che conosciamo che ci possono aiutare, consigliare, difendere, sostenere, finanziare; il nemico è solo la Destra.

Teniamo a mente questi quattro particolari.

Inquadriamoli nel panorama nazionale, in cui si muovono almeno un centinaio di realtà d’occupazione ma un’informazione che riflette esclusivamente (com’è costume di ogni mass-media) le posizioni di due grandi realtà organizzate, Roma e Milano.

E pensiamo ora a quelle che possono essere le conseguenze di accordi presi da posti grossi in queste due città nei confronti del resto del mondo: intanto sarà lampante che se nemmeno lì (dove ci sono le masse, dove quindi, secondo la mentalità democratica e pecorile, ci sono le lotte più grosse anche se insignificanti dal punto di vista politico e rivoluzionario) si può occupare e tenere un posto senza venire a patti coi partiti, figuriamoci nelle realtà di provincia o per quelle che -ah, sciagura!!- hanno la colpa di non avere una massa dietro di sé!

E figuriamoci l’atteggiamento degli amministratori che, di fronte a cotanto esempio saranno ben certi della loro invulnerabilità politica nel caso dovessero sgomberare chi non si piegasse a tali patti; quando ci sono precedenti così eclatanti, la carriera è al sicuro (a meno che poi non scorra il sangue e si verifichino quindi casi ANCORA PIÙ eclatanti). Tutta gli altri posti, quelli già nati ma soprattutto quelli nuovi, quelli delle metropoli ma soprattutto quelli delle piccole città e di provincia, SOPRATTUTTO QUELLI NON SCHIERATI, si troveranno di fronte ad una repressione immediata e militare oppure all’alternativa di accettare uno stato di fatto condizionato in senso limitativo dagli accordi presi precedentemente da altre realtà “in alto loco”, più legittimate di fronte alle autorità.

E tutti i posti occupati che CONTINUANO A NON VOLERNE SAPERE DI DIALOGHI COL POTERE e che si trovano a convivere con i raggruppamenti che hanno spinto per il riconoscimento legale saranno sgomberati con la forza; gli sgomberatori saranno legittimati in pieno nella loro opera di repressione dagli accordi presi precedentemente nelle città dai grandi posti. Accordi che stabiliscono anche agli occhi dell’opinione pubblica, una linea divisoria tra i buoni (chi accetta il dialogo con le istituzioni) ed i cattivi (chi lo rifiuta).

Si chiuderà definitivamente la possibilità di realizzare nuove occupazioni, come si può ben vedere in altri paesi d’Europa dove la legalizzazione degli squat è in atto. Chi vorrà uno spazio potrà inoltrare domanda all’amministrazione e attendere con fede. Chi si ostinerà ad occupare ancora sarà immediatamente sgomberato.

La gravità delle responsabilità di chi vuole o cerca un dialogo non necessario col Potere è amplificata dal fatto che quest’area si presenta come un gruppo compatto che per ogni iniziativa/campagna ha indicato una linea precisa e rigorosamente osservata da tutti i suoi affiliati, creando schieramenti precisi nella stessa area della sinistra estrema: non a caso ci sono situazioni di scontro e conflittualità all’interno di città come Roma, Padova, Firenze e Milano. Le situazioni che, pur appartenendo alla sinistra, non si allineano sono tagliate fuori da ogni considerazione ed ignorate dall’informazione ufficiale; l’unica voce rappresentata all’esterno è quella di chi ha deciso di rapportarsi con le istituzioni e che s’impone come L’UNICO interlocutore esistente. Da qui la presentazione di assemblee nazionali che si autodefiniscono come uniche rappresentanti del cosiddetto movimento.

È altresì chiaro che se c’è chi costruisce una “linea” univoca, esiste tutto il resto (cioè la maggior parte delle esperienze di occupazioni) che si trova di fatto dall’altra parte, non essendosi schierato o non volendo schierarsi. Per costoro non c’è alternativa di fronte al fronteggiamento col Potere se non quella di confrontarsi con una linea CHE ESSI NON HANNO CHIESTO NÉ VOLUTO ma con la quale devono per forza fare i conti; e questa si chiama, voluta o meno, prevaricazione.

Naturalmente questa legalizzazione non sarà unica e univoca, potrà essere un passaggio che comprende l’associazione forzata (con tanto di statuto, presidente, tessere, etc.), la cooperativa, l’affitto simbolico o magari non simbolico ma pagato dall’amministrazione comunale, la convivenza con altre associazioni di ogni tipo, il rispetto delle norme antincendio, d’igiene, agibilità e abitabilità con relativi controlli di funzionari e sbirraglia varia. E poi ancora la SIAE, le licenze per gli alcolici, la Finanza (cosa già proposta dai Verdi a Torino: i C.S. incassano quindi devono scontrinare e pagare le tasse come gli altri…), etc. etc. Non saranno magari tutte queste cose, magari non tutte in una botta sola, ma una volta aperto, il discorso non si potrà chiudere mai più. È altrettanto ovvio che lo Stato, già soddisfattissimo di aver creato il precedente per affrontare e risolvere il problema, non imporrà ai Grandi C.S. delle Grandi città delle condizioni inique che possano scatenare le reazioni della base, ma non si farà nessuno scrupolo nell’imporle fin dall’inizio alle realtà minori.

Ma anche per questo problema traspare lampantemente la consequenzialità della politica dell’autonomia: i posti che riusciranno a colloquiare col Potere senza perdere il posto saranno esclusivamente quelli che avranno attirato le masse dalla loro parte ponendosi demagogicamente come avanguardia politica, quelli quindi che avranno dalla loro parte il fattore aggregazione e quindi voce su giornali e TV, legittimati di fronte all’opinione pubblica e alle istituzioni, tutto secondo il dogma democratico: la maggioranza ha sempre ragione. Se l’asse portante della lotta per le occupazioni dev’essere la sicurezza dell’intangibilità del posto, la sicurezza del riconoscimento del proprio status, viene a mancare tutto l’elemento psicologico di rottura dal proprio vissuto che caratterizza una volontà rivoluzionaria.

Chi realmente cerca un cambiamento radicale non può cercare sicurezze, in quanto l’unica sicurezza che possiamo avere è quella di conservare la propria dignità di individui rivoltosi di fronte ad un mondo in cui non possiamo vivere liberi, il resto è una tragica ingenuità o un’alienante mistificazione della vita. D’altra parte gli anarchici, non essendo, naturalmente, un movimento e non avendo né linee né organismi centrali, vivono nel modo più eterogeneo le proprie situazioni di occupazione e d’autogestione, lasciando il campo libero ad ogni sperimentazione a chi vive direttamente le esperienze sul proprio territorio, e proprio per ciò evitando accuratamente di fornire indicazioni precise e prescrizioni ideologiche sulle modalità del caso.

I soli principi che teniamo a ribadire, non solo nei confronti degli anarchici ma anche nei confronti di tutti coloro che aspirano ad un percorso di autogestione diretto al sovvertimento di questo stato di cose, è che più liberi siamo meglio è; sembra ovvio, ma non cercheremo mai dialoghi con le istituzioni (tantomeno con partiti, né di destra né di sinistra) se non in caso di estrema necessità. A noi sembra che le sorti delle occupazioni, soprattutto nelle grandi città, non siano in completa balia dei favori dei partiti e della Legge, cosa che si verifica più sovente altrove; non possiamo che valutare un’operazione dei genere come un tentativo di legittimazione di potere para-istituzionale che nulla ha a che vedere con l’autogestione e con la rivolta. Non abbiamo inoltre nessuna intenzione di far le spese di questa opportunistica politica di revisionismo.

Qualora questo dovesse succedere sapremo a chi chiederne conto. Per questo indichiamo a tutti fin d’ora queste fumate compromissorie con tutto il carico di minacce che nascondono.Per questo non ci interessa essere “tanti” quanti più possibile se non verificando attraverso le nostre quotidiane pratiche d’azione diretta l’affinità che ci lega ai singoli individui. Non vagliamo trovarci in un “movimento” di club alternativi che inseguono il sogno dello show business o che vogliono tirare a campare col mercatino dei poveri, tantomeno con delle cellule para-istituzionali pronte ad assemblarsi con organi di potere (ancorchè di sinistra) pur di sopravvivere per poter adempiere ad un fantomatico ruolo di avanguardia delle masse.

II nostro scopo è la distruzione della politica, quindi non vogliamo nessun tipo di Potere, il Potere va distrutto.

Proponiamo perciò la massima diffusione, soprattutto attraverso l’azione diretta, delle varie esperienze di autogestione dichiaratamente rivoluzionarie come eterogeneità operativa delle esperienze di occupazione su tutto il territorio nazionale e INTERNAZIONALE. Sollecitiamo una serie di incontri volti a scambiarsi informazioni ed esperienze sulle proprie metodologie alegali e fuori dalle istituzioni che tocchino tutti i temi, individuali e collettivi, di chi ha deciso per propria scelta – e non per miserabili necessità – di vivere secondo principi autogestionari e di libertà. I terni che proponiamo sono quindi quelli di chi opera attivamente e quotidianamente nei vari campi: dall’autofinanziamento all’organizzazione di concerti fuori dal business alternativo, all’autoproduzione, alla distribuzione, all’autocostruzione, alle attività di supporto alle realtà minori, alla propaganda delle nostre idee e delle nostre attività; e tutte le sfere d’attività esterne alle occupazioni: antimilitarismo, anticlericalismo, astensionismo, controllo sociale, critica al lavoro, altre forme di lotta autogestionaria.

Contro l’accentramento, contro l’omogeneizzazione, contro ogni schieramento, diffondiamo mille pratiche di liberazione.

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Anonymous Italia: Polizia di Stato owned and exposed!

riceviamo e diffondiamo:

“Salve.
Da settimane ci divertiamo a curiosare nei server della Polizia di Stato: nelle loro e-mail, nei portali, tra documenti, verbali e molto altro. Siamo in possesso di una notevole mole di materiale.
Nel sample è contenuta una parte di quello più saliente: potrete trovare ad esempio documenti sui sistemi di intercettazioni, tabulati, microspie di ultima generazione, attività sotto copertura; file riguardanti i Notav e i dissidenti; varie circolari ma anche numerose mail, alcune delle quali dimostrano la disonestà delle forze di polizia (ad esempio una comunicazione in cui vien loro spiegato come appropriarsi dell’arma sequestrata ad un uomo straniero senza incorrere nel reato di ricettazione).
Il livello di sicurezza dei sistemi ai quali abbiamo avuto accesso, al contrario di quanto pensassimo, è davvero scadente, e noi ne approfittiamo per prenderci la nostra vendetta.”

Link Comunicato [estratto]: http://bin.par-anoia.net/?1800f84bb71c2c81#j+qtFHxdgGgNJrGpftRp4E/nQyx2pCzDS55lTllWJw8=

Link Comunicato Integrale: http://bin.par-anoia.net/?1800f84bb71c2c81#j+qtFHxdgGgNJrGpftRp4E/nQyx2pCzDS55lTllWJw8=

Link BLOG: http://anon-news.blogspot.com/2012/10/antisecita-polizia-italiana-owned.html

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E’ uscito: “Per una milizia cittadina. Elementi di lotta insurrezionale” delle edizioni Anarchismo

E’ disponibile il volume:

“Per una milizia cittadina. Elementi di lotta insurrezionale”
First of May Group
pagine 144 – euro 10,00

Il fatto che tanta acqua sia passata sotto i ponti da quando queste annotazioni furono redatte, e incolpevoli artisti messi al lavoro per tratteggiare vignette esplicative, non significa che l’imperiosa necessità di questo documento non permanga identica. Che le facce siano mutate, e i salamelecchi diventati più untuosi e meno rozzi, che le disavventure del capitale emergano in primo piano, non vuol dire che in ultima sede, come estrema spiaggia su cui collocarsi e difendere i privilegi e lo sfruttamento, non ci sia il nemico armato. Questo è sempre là. Si è di molto affinato, adesso ha mezzi che prima non poteva permettersi, e ciò anche perché le difficoltà stesse del capitale convincono quest’ultimo a pagare in anticipo una difesa che potrebbe rivelarsi più urgente del previsto. E noi? Cosa volete che vi dica? Non è che si siano fatti molti passi avanti di fronte ai problemi che a suo tempo, più di trent’anni fa, questo documento sollevava. In primo luogo la ritrosia di fronte all’organizzazione armata, che sempre dovrebbe accompagnarsi ad una critica, impietosa e penetrante, delle illusioni spontaneiste riguardando “il gran giorno”, quando tutto diventerà facile per i rivoluzionari e le armate nemiche crolleranno al suono delle trombe come le mura di Gerico. Purtroppo le cose non stanno, né sono mai state, così. Ma, per converso, è stato molto comodo per tanti illudersi che qualche meccanismo occulto alla storia e alla distribuzione dei rapporti produttivi lavorasse in questo senso. Non ci sono meccanismi occulti nella Storia, e forse non c’è nemmeno una Storia. Ci sono miserabili tentativi storici e filosofici di occultare il proprio contributo ai massacri, diretto o indiretto, quest’ultimo punto è secondario. Mettere le mani a mollo, perdio. Il resto è, come sempre, affidato all’intelligenza, merce rara ma che non dovrebbe scarseggiare dalle nostre parti. Almeno, spero.

Contattti e richieste: www.edizionianarchismo.net – edizionianarchismo@gmail.com

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