Trieste – Donna muore nella camera di sicurezza del commissariato

riceviamo e diffondiamo:

Lunedì 16 aprile a Opicina, paese nel comune di Trieste, una giovane donna Ucraina  è morta nella cella di sicurezza del commissariato.
Un’altra storia di morte a Trieste dopo quella di Riccardo Rasman di qualche anno fa ucciso a sangue freddo in casa sua dalla polizia. Poliziotti che identificati sono stati condannati a sei mesi con la condizionale e mai sospesi dal lavoro.
A Trieste per strada e per i bar più volte si è sentito parlare di pestaggi e violenze perpretate dalla polizia e dai carabinieri nei riguardi di ragazzi ubriachi o persone indifese e isolate, alcuni ragazzi anche sistematicamente.
Questa storia, come tante fa acqua da tutte le parti, a noi non interessa ora raccontare il fatto in se perchè ci addollora tanto il silenzio inquietante che questa città per l’ennesima volta dimostra difronte alla violenza delle carceri e della polizia.

Pagheranno ogni violenza!
Morte allo Stato e tutti i suoi servi in divisa.

Anarchici Triestini


Articolo tratto dal quotidiano triestino Il Piccolo del 17 aprile

Una donna di 32 anni scarcerata sabato e in attesa di essere allontanata dall’Italia, è morta impiccata all’interno di una stanza del commissariato di Opicina. Alina Bonar Diachuk, cittadina ucraina ha tolto dalla sua felpa il cordino che regolava la tensione del cappuccio; lo ha annodato alla maniglia della finestra, ha passato il cappio attorno al collo e si è lasciata cadere a corpo morto sul pavimento.

Erano le 10.40 di ieri mattina. Un poliziotto dell’Immigrazione è entrato nella stanza, ha visto il corpo a terra e ha dato subito l’allarme. Era giunto lì per accompagnare la donna al Cie di Bologna. Fino a quel momento nessuno degli agenti presenti al commissariato aveva visto sul monitor del sistema di videosorveglianza il corpo della donna riverso sul pavimento. Alina Bonar Diachuk dava ancora qualche debole segno di vita. Gli uomini del “118” e alcuni agenti hanno tentato di rianimarla per 40 minuti. Ma non c’è stato nulla da fare. Subito dopo le stanze del commissariato si sono riempite di funzionari, investigatori e inquirenti. Tra i primi il pm Massimo De Bortoli, poi il medico legale Fulvio Costantinides e il vice capo della Mobile Leonardo Boido. Verso le 12 quest’ultimo ha informato l’avvocato Sergio Mameli, difensore della donna. Alina Bonar Diachuk era stata scarcerata sabato mattina, dopo 10 mesi di detenzione al Coroneo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il decreto era stato firmato dal giudice Laura Barresi subito dopo aver applicato la pena di quattro anni di carcere congiunti all’espulsione dall’Italia. Non esistevano più esigenze cautelari. Era stata arrestata nello scorso giugno a Gorizia con una ventina di altre persone al termine di una indagine coordinata dal pm Pietro Montrone. A metterla nei guai era stato un “bonifico” di 400 euro ricevuti, secondo l’accusa, per aiutare alcuni curdi irakeni a entrare in Italia. Al Coroneo aveva tentato di uccidersi, ma il suo stato di depressione non ha indotto nessuno ad adottare all’interno del commissariato adeguate misure di sorveglianza. Ora il pm Massimo De Bortoli sta cercando di capire se la giovane donna sia stata indotta a compiere quel gesto dopo aver saputo che di lì a poco sarebbe stata rispedita coattivamente in Ucraina, quando al contrario i suoi cari vivono in Italia, a Milano.

«Avevo parlato con Alina domenica alle 10» racconta disperato il marito della cugina che ieri si è messo in contatato con “Il Piccolo”. Aggiunge: «Lei era già al commissariato. Mi aveva detto che stava male e che non capiva perché l’avevano portata lì. Credeva di poter tornare a Milano, voleva andare in stazione e prendere un treno. Ho chiamato l’avvocato che nominerà un perito di parte per asssietre all’autopsia. Alina, prima dell’arresto, era spesso a casa nostra e stava con i miei bambini. In carcere si era depressa e aveva anche tentato il suicidio tagliandosi i polsi. Mi domando perché non sia stata sorvegliata in commissariato. Chiedo che venga individuato un responsabile. Bisogna fare chiarezza. Non è possibile morire in un posto di polizia».

«È un episodio doloroso sul quale indagherà il magistrato che ha delegato gli investigatori della Mobile a effettuare tutti gli accertamenti», afferma il questore Giuseppe Padulano. Continua: «Abbiamo posto a disposizione del magistrato le immagini registrate dal sistema di videosorveglianza. Era una persona nei cui confronti era stato adottato un provvedimento di tipo amministrativo. Le è stata revocata l’applicazione della misura cautelare dopo il patteggiamento. Ora attendo i rapporti interni per capire esattamente come si sono svolti i fatti».

da: informa-azione

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