Oltre il “Movimento” – Anarchia!

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Tratto da 325 – An insurgent zine of social war and anarchy #9 (Ottobre 2011)

trad: Culmine

 Oltre il “Movimento” – Anarchia!

Il mondo è un’avida e viscida chiesa pestilenziale dove tutti hanno un idolo da adorare in modo feticistico e un altare sopra al quale sacrificare se stessi.” Renzo Novatore

Un movimento di anarchici dovrebbe essere, si penserebbe, un progetto collettivo di realizzazione e libertà individuale, mutuo sostegno e solidarietà, onesta comunicazione e responsabilità individuale, di attacco violento contro le istituzioni, i manager e le strutture del dominio e dell’alienazione, contro il controllo mentale e la riproduzione della società autoritaria nelle nostre relazioni, pensieri e azioni.

Cosa hanno a che fare il groviglio di gerarchie casuali, raggiri ideologici, misere combriccole, ghetti di identità, aspiranti leader, disonestà e infamia che vediamo intorno a noi se guardiamo alla maggior parte dell’autodefinitosi “movimento anarchico”? Molto poco tranne forse a parole o in una forma stentata. Ovviamente il movimento in generale è più interessato a proteggere le fortezze ideologiche, a reclutare seguaci, a preservare la comodità soffocante dei suoi ambienti, e soprattutto, a seguire i suoi hobby innocui, piuttosto che l’anarchia.

Muoversi e cercare di trovare un punto di riferimento nel “movimento” può portare al disorientamento. I compagni giovani, o nuovi, che entrano nel “movimento” (o piuttosto, nell’ambiente) vengono frequentemente afferrati da uno dei marchi di politiche prestabilite e costretti a scegliere tra le false proposte dei prodotti offerti dai vari raggiti ideologici. Quando un sistema di idee è strutturato con una astrazione dominante al centro – e ti assegna ruoli o compiti per il suo bene – questo sistema è un’ideologia. Un’ideologia è un sistema di consapevolezza repressiva nel quale non sei più un singolo individuo dotato di volontà, ma un componente, un ingranaggio.

In questo mondo basato sulla merce, l’immagine della ribellione può essere giusto un altro prodotto, cosi come noi possiamo mercificare, astrarre, e sistematizzare le espressioni dei nostri pensieri e desideri in forme alienate e mercificate, una forma intercambiambile – l’ideologia. Infatti, molto più sottilmente e pericolosamente, anche quando non siamo consapevoli di cosa stiamo facendo. Nelle varie organizzazioni ideologiche, negli ambienti e in molti dei media anarchici, una ristretta e condivisa visione della realtà si rinforza con dei parametri specifici.

La libera comunicazione che va oltre i confini del discorso interno viene interrotta dagli attacchi verbali e dalla derisione, dall’esclusione fisica, dagli avvertimenti della repressione di stato o dalla non accettazione della società, e dal lineare e dogmatico rifiuto dei pensieri eretici. Come ogni stile di vita o identità nel mercato democratico della società, l’anarchismo ha i suoi pacchi di offrte – completi di attitudini, opinioni, stili, attività e prodotti, tutto sotto comode etichette.

Dovrei menzionare a questo punto che, come alcuni sentono affinità con altri di una tendenza antisistemica e insurrezionale nel mondo, io sono consapevole che l’”Anarchismo Insurrezionalista” o che altro possa essere trasformato in un’ideologia da acquistare, o anche più facilmente in una moda o stile. Sicuramente recentemente questo è sembrato essere vero in alcuni contesti. Ma forse ciò è dovuto all’influenza recuperativa degli intellettuali di Tiqqun e della loro “Insurrezione che viene”, libro che, come anche “L’appello”, sembra aver influenzato molti giovani radicali, ma sembra essere stato scritto da marxisti e che da nessuna parte sostiene l’autoresponsabilità individuale, il libero arbitrio, il desiderio e la consapevolezza. La loro insurrezione potrà essere imminente, la mia è già arrivata, ed essa è una rivotla individuale.

Il messaggio collettivista di “L’insurrezione che viene” ha poco in comune con l’anarchismo insurrezionale: la teoria rivoluzionaria fluisce dalla rivolta e dalle passioni dell’individuo fino alla riappropriazione della pienezza della vita per se stessi, attaccando tutto ciò che controlla e sfrutta, trovando convergenze e affinità con altri dalle quali venga fuori la vera comune – gli amici e i complici della guerriglia contro la totalità della società autoritaria.

Senza alcun sistema dominante della moralità, della teoria, dei principi o delle astrazioni sociali che stia al di sopra dell’individuo, l’anarchico-nichilista attacca tutti i sistemi, inclusa i sistema di identità e ideologia, in quanto ostacoli alla nostra autorealizzazione. La lotta non è solo contro il dominio del controllo dell’organizzazione sociale e la tranquillità diffusa, ma anche contro gli insiti piani repressivi e la forza della vita quotidiana, e cosi la nostra lotta è una tensione costante dove ciò che dobbiamo distruggere e superare è molto più evidente rispetto a dove si potrebbe finire.

Per alcuni, sconfitti da questa realtà opprimente, è abbastanza arrivare ad un’alternativa, un sistema sociale “ragionevole” (o “utopia”) nelle proprie teste. Alcuni considerano ciò come una piacevole terra immaginata, mentre altri desiderano che la società cambi davvero magari (più comunemente) scegliendo un recipiente A o B (o “programma” per la trasformazione sociale, per la riprogrammazione del sistema sociale. Ciò è semplicemente una forma di consapevolezza repressiva (sistemica).

Frequentemente l’immaginare e il predisporre questi sistemi sociali alternativi (inclusi quelli di molti anarchici) si riducono a delle semplificazioni come gli strati manageriali di questa società di classe, la cui avanguardia è responsabile della costante ristrutturazione sociale del mondo moderno. La democrazia sul posto di lavoro, la produzione decentralizzata, le tecnologie “verdi”, il multiculturalismo, e cosi via – tutto ciò viene sperimentato dall’ordine dominante, e lo rafforza.

La teorizzazione di sistemi sociali astratti – e tutti i sistemi sociali sono basati su delle astrazioni – rafforza solamente il dominio. Ma se cominci dalla tua stessa vita e rifiuti di essere un componente di qualcosa, rifiuti di rappresentare altri o che altri rappresentino te, venendo incontro alla tua imperscrutabile unicità, sapendo che nella vita tutto ciò che affronti sono scelte, allora diventi un pericoli per l’autorità e l’ordine, un microcosmo d’anarchia in movimento.

Questo è un appello ad evitare le gerarchie casuali e le combriccole del movimento anarchico ufficiale, ad evitare i sistemi ideologici e le identità politiche, a salvaguardare il piacere di pensare per se stessi, a seguire i propri desideri, a seguire dignitosamente e onestamente tutto l’ignoto di verità, negazione e passione, non predisponendo l’astrazione al di sopra di te stesso. Nella guerra per la fine, contano solo le scelte, e solo tu sei responsabile delle scelte che fai.

Esamina i tuoi sentimenti e pensieri, elimina da te stesso tutti i sistemi morali e ideologici, sii consapevole che il “senso comune” (o meglio il razionalismo del consenso sociale) è il supporto più forte dell’esistente, non essere spaventato di dove la tua lotta interiore (ed esteriore) ti condurrà.

Distruggere tutti gli idoli, anche e soprattutto quelli “rivoluzionari”!

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Contributo alla storia dell’individualismo

Anselm Ruest (pseudonimo e anagramma di Ernst Samuel, 1878-1943) è stato uno dei maggiori studiosi tedeschi di Max Stirner, di cui ha curato un breviario e a cui ha dedicato un saggio. Assieme a Salomo Friedlaender, fu il fondatore del giornale individualista anarchico Der Einzige (L’Unico) che apparve in Germania dal 1919 al 1925. Il suo pensiero ruotava attorno al contrasto fra l’individuo consapevole in possesso della propria personalità e la persona priva di consapevolezza e come tale dipendente dalla società, e ha profondamente influenzato sia gli ambienti espressionisti che quelli dada. A nostra conoscenza, quello che segue è l’unico testo di Ruest tradotto in italiano.

Anselm Ruest

«Allorché si conosce a fondo e si approfondisce la nozione dell’Individualità e delle conseguenze che ne derivano dal principio che è la base, vale a dire che ogni uomo non è solamente specialmente relativo al mondo, ma ancora ad ogni oggetto nel mondo e ad ogni idea che quest’oggetto risveglia, si è meravigliati che tanta discordia naturale sia possibile a fianco di tanta concordia storica»

Questa meditazione di Hebbel — essa si trova nel suo Giornale— ci dà un’idea esatta del concetto individualista. Infatti, se l’individualismo non costruisce, non può costruire dei sistemi in serie, pare che si sviluppi senza urti negli “Io” presi separatamente, come se agisse in virtù d’un contratto tacito, d’una convenzione occulta. Non solamente l’Individuo, preso nel senso più ordinario, non sfugge, ma ogni artista, ogni filosofo, ogni creatore intellettuale, quand’anche si presentasse dotato d’idee impersonali, disinteressate, anche sociali, apparirebbe allo psicologo osservatore e intelligente come un fenomeno individuale perfettamente isolabile. Questo «Individualismo immanente» non può non essere percettibile o afferrato, l’individuo stesso può non trovarsi arricchito del fatto della sua esistenza, e può non svilupparsi più magnificamente. Ma dopo tre o quattro secoli, si sente crescere la conoscenza dell’individuo in tanto che esistenza a parte, si notano i segni distintivi della meraviglia che risveglia la percezione dell’io. Gli antichi che insegnarono tutte le storie della filosofia, percepirono appena l’io; bisogna venire fino alle biografie come Sant’Agostino, Petrarca, Junius perché la via si schiuda, ma è presso Pascal (verso il 1650) che l’individualismo moderno si differenzia da tutto ciò che l’aveva preceduto.

Dopo la sua gioventù, Pascal si era ingaggiato con una sicurezza senza limiti sulle vie soleggiate delle scoperte e della rinomanza; giovane ancora, egli aveva già raggiunto una grande celebrità. Di repentino egli credette di percepire che il suo io — il suo “immortale”, il suo “distintivo” — se n’andasse alla perdizione. La potenza, l’onore, la gloria non gli parvero più che la caccia volgare dei risultati cui mira l’istinto della specie “uomo”; gli parve che solo la fede — il cristianesimo solo potendo isolare l’io — potesse illuminare ogni io sul suo vero destino. Che si comprenda bene: il cristianesimo pascaliano era una creazione particolare, unicamente personale per Pascal; in ciò e in nessuna altra parte egli poteva riconoscere e distinguere il suo io. Che questo cervello sì lucido e brillante, che questo scettico scientifico, che questo matematico e fisico così chiaroveggente potesse credereera la sua facoltà, il suo dono individualista personale. Si sarebbe ben meravigliato, d’altronde, se avesse dovuto comparare la sua fede con quella delle masse. Egli dunque attribuisce al cristianesimo tutta la conoscenza: solo poteva convincere l’uomo della sua infinita grandezza e della sua miseria tragica — quella miseria tragica della quale Pascal s’era trovato in preda allorché la sua perspicacia l’aveva lasciato tranquillo davanti a certi problemi impossibili a risolvere. La fede gli era semplicemente un mezzo di autoesaltazione, d’innalzare il suo io…

D’allora l’Individuo si ritira talmente a parte e isolatamente che ne sognerà completare il suo isolamento morale con un isolamento fisico, metodo d’altronde erroneo: ma ogni individualismo apparentemente fisico sarà ormai l’espressione d’una sensibilità culturale, intellettualmente effeminata. Ecco Daniel Defoe, il creatore della “Robinsonata”, inaugurare un secolo dove non si uscirà dalle robinsonate.

Che un uomo d’altronde ordinario, che non si accontenti più del suo focolare né del suo ambiente sociale, che il gusto delle avventure lo spinga ad andare a cercare fortuna nei paesi lontani, ciò non presenta niente di particolarmente differenziato; ma che venga gettato su un’isola deserta, separato dalla società degli uomini, obbligato d’aggiustarsi di suo rischio e pericolo e che il suo io si comporti irriflessivamente, istintivamente, incoscientemente nelle circostanze quotidiane della vita e che si comporti tanto a riguardo delle cose e delle persone sopravvenute inopinatamente che faccia a faccia delle concezioni tradizionali senza ricreare servilmente — individualmente e intellettualmente — l’ambiente lasciato — ecco ciò che denota presso il poeta creatore di Robinson un’esperienza dell’Io rara e originale. Perché Robinson è forzato di rifare passo passo tutto il cammino percorso dalla civilizzazione, questo europeo leggero, che reagisce, dotato di tutto l’acquisito intellettuale e scientifico della sua epoca, alla soglia del meccanismo, si trasforma in un uomo serio, riflessivo, dai profondi pensieri, che stabilisce il suo proprio calendario, scrive un giornale e si fabbrica una religione adeguata alla sua situazione. Che si compari questa religione con quella della madre patria e si vedrà subito che ciò che sembra rivoluzionario non è, tutto sommato, tanto lontano dalle convenzioni e dei costumi tradizionali. Del pari, l’autore non ha voluto ciò — egli ha concepito un grazioso romanzo fantastico ed ha fatto in modo che il mondo delle scoperte compiute dal suo io isolato in Europa ed altrove — sia comprensibile.

Trasportate Robinson dal dominio della sperimentazione all’aria libera in quello della sensibilità, dalla finzione nella didattica e voi avrete uno dei più autentici antenati dell’Individualismo — Rousseau.

Vedete come Emile, subito dopo la sua nascita, si trova trasportato alla campagna — la sua isola di Robinson. Ciò è che il primo giorno passato nell’ambiente sociale malsano potrebbe nuocergli, corrompere il suo individualismo. E là, alla campagna, Emile si sviluppa realmente — benché non si cessi d’essere ansiosi sui risultati del suo sviluppo; che ne sarà di lui: un umano, un sopraumano, un dio, un animale?

Solamente, ci si persuade troppo presto che Rousseau, molto prima di Emile, aveva concepito il suo programma d’educazione — dove l’aveva preso? Nell’osservazione, nella esperienza, nella riunione delle più ricche conoscenze umane — nell’umano considerato in generale. Spesse volte anche egli non è così: giocava troppo facilmente con le difficoltà ed il suo Emile arriva a possedere un’anima che tiene la natura come assolutamente incapace di bene e di male. A dispetto del suo sistema d’educazione abile, manifestamente ammesso come individualista, la Rivoluzione Francese, che sacrifica ai manidi Rousseau, ebbe assolutamente ragione di dare un significato sociale alla divisa: «Libertà, Uguaglianza, Fratellanza». Essa si manteneva nello spirito di Rousseau di cui l’individualismo non concepiva l’uomo isolato, definito separatamente, ma l’umano in generale. Non più che come lo concepirono altrimenti tutto il diciottesimo secolo e, più tardi, Kant e Fichte. Come avrebbero potuto mantenersi così da parte? E non è forse dal seno della società che Emile era stato trasportato alla campagna?

È qui che noi condividiamo lo stupore di Hebbel: «Quando si approfondisce la nozione dell’Individualità… le conseguenze che ne derivano… si è stupefatti che tanta discordia naturale sia possibile a fianco di tanta concordia storica». Emile non aveva giammai obliato il suo governatore, il diciottesimo secolo; il diciannovesimo secolo s’è onestamente sforzato di congedarlo. Ma il tutto è di sapere se il governatore così messo in giubilo non sia rientrato dalla porta di dietro, se il divorzio stesso secondo la concezione roussoniana non abbia costretto i fatti reali ad una semplificazione inevitabile. L’uomo personale, determinato, individuale, ha voluto una volta per tutte sgomberare, svestire, raggiungere il diciannovesimo secolo. Ma che non si dimentichi: in fin dei conti, l’Individualismo, il più conseguente concerne… degli uomini; non ha nulla a che fare con degli dèi, delle grandezze che si possono assolutamente comparare.

Rousseau non aveva approfondito «tutte le conseguenze derivanti dalla nozione dell’Individualità». Schleiermacher, Stirner e Nietzsche lo fecero da veri filosofi come erano. Nei Monologhidi Schleiermacher, noi troviamo dipinta, per la prima volta, la felicità che è l’appannaggio dell’uomo che osa considerarsi come un essere “voluto a parte”. L’universo può, nella sua grandezza, sembrare di voler schiacciarmi, ma non mi compenetra, io, che sono una parte costitutiva e indispensabile e più lontano l’Unico si sforza di stendere e il suo fine e le sue gesta, più profondamente egli comprende la sua situazione e la sua necessità del Cosmo.

Goethe ha parlato in qualche luogo della felicità superiore dei fanciulli della Terra. Personalità! Schleiermacher e Goethe erano dei metafisici: si vede subito, secondo loro, da dove proviene la concordia «a fianco di tanta discordia naturale»: l’Unico è una tale potenza! Io posso obiettare e dire che ciò è la concatenazione delle apparenze che reggono, in qualche modo, il Cosmo — che vuole che le misure di precauzione necessarie siano prese. Nietzsche stesso — nel quale si tendono le mani il principio e la fine dell’ultimo secolo — era un metafisico in fondo al cuore, malgrado che si sia così aspramente difeso; ed è per ciò, col suo «eterno ritorno», egli ha edulcorato di nuovo l’Individualista assoluto, irrazionale, che ha concepito uno sviluppo meccanico dell’evoluzione universale, che ha creduto ad una costanza dei “greggi”. E perché ciò? — non sono, essi pure, composti di “Io”? E, intanto, qualcuno deteneva, nel medesimo secolo, la chiave dello «stupore» che tormenta Hebbel: «a fianco di tanta discordia naturale», e questo qualcuno era Max Stirner.

La storia della Filosofia è grandemente debitrice a Stirner, tanto quanto a Berkeley che turba così molto la coscienza mutabile in lui parlando per la prima volta del «mondo come nostra rappresentazione». Abituiamoci, dunque, una volta per sempre, a guardare in faccia l’oceano dei pensieri eternamente in movimento, a ritenere come trascurabili le deduzioni preconcette che si possono dedurre da idoli dogmatici come “la verità” e “la menzogna”. Consideriamo, una volta per sempre, le cose ed i pensieri come un eterno e magnifico gioco di colori cambianti che si succedono sulla cappa dell’infinito, che non ci sarebbe concepibile che all’infuori dei nostri sensi, in uno stato di fusione, di deliquescenza interiore, forse solamente nella morte. In tutti i casi, ecco cos’è sicuro: Cioè che, viventi, noi abbiamo raramente coscienza del nostro legame intimo con il Cosmo — che i medesimi nostri eccessi di coscienza più affermati sembrano evolversi nei limiti d’una rottura voluta, d’una separazione intenzionale con l’Universo, di sorte che noi ci abbandoniamo tanto più ciecamente e confidenti ai nostri istinti che ci rivelano il nostro io come una cosa di un’estrema importanza.

Se il legame eterno di ogni io con il Cosmo sembra fuor di dubbio, noi non lo sentiamo; il mio vicino può essere infinitamente triste ed angosciato, allorché il miocuore palpita di gioia e d’ebbrezza; al medesimo momento l’occhio di A… vede altre immagini che l’occhio di B… (quantunque certamente una sfera di sentimenti e di sensazioni saturi tutto l’universo e si esteriorizzi in molto “entusiasmo”, non ho io allora il diritto di fare riposare la mia coscienza individuale su se stessa e di lasciare ogni io, preso separatamente, farsi valere da se stesso? Vi sono due metodi: uno considera l’io come parte d’un tutto che non conosce — l’altro considera ogni io come un tutto che conosce, particolarmente per le manifestazioni della sua coscienza. È questo secondo metodo che ha seguito Max Stirner; è perciò che ha “approfondito” la nozione dell’Individualità e delle sue conseguenze, che chiama l’Io «il mortale e passeggero creatore del suo Unico». Non perché è così, ma perché noi lo… sappiamo. Dunque, se c’indirizziamo a Stirner per altre supposizioni, se si vuole ottenere qualche informazione sull’Armonia universale, il Creatore di tutte le cose, non s’impara nulla. Ma se si sa che Stirner parla di ogni io come d’un Unico nell’insieme delle apparenze, si apprendono cose preziose. Hebbel s’interessa dell’universale e finì di meravigliarsi perché a fianco di una tale differenziazione può esistere «altrettanta concordia storica». Stirner, egli, non conoscendo che la gioia della logica, spinse un pensiero fino alle sue estreme conseguenze teoriche, poco importandogli come sarebbe finita.

Io vorrei ben sapere quali supposizioni sono più solidamente appoggiate che quelle! Una gran parte di gente ci offrono — e noi ci siamo talmente abituati! — le prospettive “le più grandi”, le concezioni “le più sublimi”, i punti di vista “i più scevri di pregiudizi”: su che cosa fondano tutto ciò? È certo che, se Stirner non avesse considerato l’ateismo di Feuerbach come dimostrato, egli non avrebbe esplicato l’Individualismo come ha fatto. Ma il Teismo non è un fatto provato? Se lo fosse stato, Stirner avrebbe cercato altri motivi, li avrebbe trovati e sarebbe ugualmente pervenuto all’individualismo estremo. Egli procede dunque da Feuerbach che aveva definito la Religione come «una rottura dell’uomo con se stesso»; egli non si domanda se la definizione di Feuerbach fosse esatta o no in sé, ma si domanda come poter guarire la rottura, riparare lo squarcio; in Feuerbach, gli attributi divini erano divenuti manifestamente umani e, per realizzare l’ideale “dell’Uomo”, l’Unico doveva lottare instancabilmente per conquistarli. Era ancora l’uomo “in generale” del XVIII secolo. — No, grida Stirner, io non sono quell’uomo là: io sono l’uomo personale, individuale, determinato; l’ideale teologico mi è costato migliaia di anni di lotte sterili, l’ideale “uomo” non me li richiederà. Io stesso (e ogni Unico come me) sono in ogni momento tanto la apparenza dell’uomo quanto il suo essere, come la sua essenza più profonda. Non ho invidia di spaccarmi in due, di correre dietro un fantasma.

Egli si è così liberato di tutti gli altri ideali fantasmi, ed è in questa maniera che arriva alle sue negazioni col fine di liberare l’Io da tutti i determinismi “in generale” — notatelo bene: universale, in generale allegemein. Ciò non ha nulla a che fare con l’individuo considerato nelle sue manifestazioni tipiche. Stirner, in effetti, lui, l’infaticabile e intrepido lottatore per le idee si è messo “al servizio” di ciò che concordava più potentemente e più sublimemente con lui — al servizio del suo Io. Ora se tu (e X e Y) trovi che il tuo Io si compie e si “consuma” di più in un mondo di idee più prossime all’idealismo — alla Schiller, per esempio, libero a te: Stirner, l’Insorto, l’Anarchico non te lo proibisce — più ancora, egli t’approva. Ti dice solamente d’essere… te stesso.

Così Stirner ha definitivamente dissipato lo stupore hebbeliano. Per aprire gli occhi degli uomini sulla loro dipendenza, la loro fede nell’autorità, la loro sensibilità suggerita dal mondo esterno, il principio individualista incomincia con una ribellione folgorante, con la discordia, con un appello energico alla tua “Unicità”. Ma colui che ti scuote, che ti muove così, ti rimette il tuo Io nelle tue proprie mani, è un uomo come te, che parla la tua lingua, con le medesime passioni e le medesime sensazioni che le tue. È perciò che «a fianco di tanta discordia naturale, tanta concordia storica è possibile».

 

[L’Adunata dei Refrattari, anno VI, n. 16, 16 aprile 1927]

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[ROMA] BEARTRAP + WITCH CULT (UK) + xKATExMOSHx + MANGIABANANE

Dopo che un eventone come il Go!Fest ha ristabilito la velocità trai diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino, Wizard of Noise Records e Badfeeling Records uniscono nuovamente le proprie forze per un’ ennesima serata all’ insegna di sfascio & violenza. Questa volta essendo domenica, dopo un weekend all’insegna del mosh e del collasso sui marciapiedi, era impensabile non proporre una matinee dopo il caffeino del primo pomeriggio…all’eroica iniziativa suoneranno:

BEAR TRAP – Powerviolence/fastcore contro cristo da Boston

http://beartrap.bandcamp.com/

WITCH CULT – Powerviolence dall’inghilterra con parecchio disagio

http://www.facebook.com/pages/Witch-Cult/141730455870213

xKATExMOSHx – Il quartetto delle meraviglie

http://www.facebook.com/pages/X-KATE-x-MOSH-X/130503807012712

MANGIABANANE – Banana noisecore solo per i giovanissimi

http://www.myspace.com/mangiabananenoise…

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[Roma] L38 Squat – Cena benefit antibevuta

Dalle 21 cena antibevuta

Affinche nessuno/a si senta e resti solo/a

Nico libero! Libertà per tutti/e!

L38 Squat, Via Giuliotti8 x, sesto ponte, da Metro B Laurentina bus 776 – N21

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Appello presidio per Valerio

da liberatutto
Il 14 marzo si terrà il processo contro Valerio, uno dei/delle compagn* arrestat* il 15 ottobre con l’accusa di resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale.

Sappiamo bene qual’è l’effettiva natura di questo processo, perchè i precedenti contro gli/le altr* manifestant* di quel giorno ce l’hanno confermato: persa completamente la dimensione giuridica, sono gli strumenti palesemente politici con i quali si vuole perseguitare, spaventare e condannare il dissenso.
E’ uno dei mezzi attraverso i quali si spera di ottenere la pacificazione sociale gettando in pasto all’opinione pubblica i capri espiatori del momento, i violenti con cui giustificare quanto è successo.
Ma non ci sono violenti e non violenti. Buoni o cattivi. Ciò che è accaduto il 15 ottobre si spiega solo con la scesa in campo di un sentimento: la RABBIA, che accomuna tutt*, che è sociale.
Per questo è necessario portare la nostra solidarietà a Valerio come a tutt* gli/le altr* vittime di un processo mediatico terrificante con il quale si vuole condannare non solo loro ma ogni forma di dissenso.
Il 15 ottobre c’eravamo tutt*.
LA RABBIA NON SI PROCESSA.
VALERIO LIBERO. TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE.

MERCOLEDI’ 14 MARZO ORE 10 PRESIDIO DI SOLIDARIETA’ PER VALERIO SOTTO IL TRIBUNALE DI PIAZZALE CLODIO.

TUTT* LIBER*!

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[ROMA] Welcome to hell.

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[Roma] Con la val di Susa nel cuore e in difesa delle occupazioni

Con la Val Susa nel cuore e in difesa delle occupazioni
il Gruppo Anarchico Carlo Cafiero — FAI Roma organizza  *Sabato 10 marzo dalle ore 16:00* nello Spazio Anarchico “19 luglio” in Via Rocco da Cesinale 16 alla Garbatella.

Proiezione e dibattito sul film “La strategia della Lumaca”  regia di Sergio Cabrera.

A seguire cena, distro, info e chitarre.

www.carlocafiero.org
fairoma@federazioneanarchica.org

*Nella Bogotà degli anni ’70 un gruppo di inquilini sfrattati da un caseggiato decidono di usare la strategia della lumaca: se ne vanno, ma si portano dietro la casa. La scelta dell’autogestione dona speranza ai protagonisti decisi a resistere ai soprusi, iniziando a dare forma al loro piano. “Le soluzioni spesso sono più semplici di quello che sembrano e più a portata di mano di quanto si voglia credere”. La proposta di un vecchio reduce della rivoluzione spagnola sembra l’unica e possibile, perché alla casa non si può rinunciare, come non si può rinunciare a respirare. *

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Niente in Comune.

E’ sempre bello e intellettualmente stimolante andare a riprendere qualche vecchia fanzina, rivista o foglio anarchico risalente a qualche annetto fa. Il mese scorso ho tirato fuori le vecchie copie di Canenero e mi sono bloccato a rileggerlo per giorni pescando nel mucchio. Quanto materiale interessante e che attualità di argomenti pur risalendo alla metà degli anni ’90!!! Qualche tempo fa, invece, passando in rassegna il  sito dei compagni di Finimondo, ho notato con estremo piacere la riproposizione di articoli tratti proprio da Canenero e da altre pubblicazioni più o meno nuove, tra cui Machete. Nel numero che vi propongo c’è una recensione particolarmente interessante di un libro uscito per la manifestolibri nel 2008: “Istituzioni del Comune” di Posse. Il libro di per se ha poco di stimolante (tenendo anche conto del linguaggio post-autonomo negriano-intellettualoide che lo pervade) ma offre spunti di riflessione sullo stato attuale del movimento cosiddetto antagonista e su un concetto che oggi va molto di moda: bene comune. Attenzione a credere che questo sia solo il solito giochino dei post-autonomi per strizzare l’occhio al buon cittadino democratico. E’ qualcosa di più e che nasce ben prima (come dimostra questo libro del 2008) con una elaborazione politico-intellettuale che ha portato alla ribalta parole d’ordine quali metropoli, spazi metropolitani, moltitudine, attraversamenti multipli fino ad arrivare al concetto cardine di Bene Comune. Attenzione ai termini: comune, non pubblico. Una volta, gli strenui difensori dello stato parlavano di università pubblica, acqua pubblica, servizi pubblici ora, dopo un’elaborazione durata più o meno 5 anni, l’università è diventata bene comune così come l’acqua, i servizi e tutto ciò che può essere ricondotto nella sfera dell’ex-pubblico. Non è un caso che questa elaborazione prettamente teorica nasca in concomitanza con la perdita della rappresentanza della sinistra in parlamento. Mancano insomma i referenti politici del movimento, quelli a cui ci si era sciaguratamente affidati negli anni precedenti. Si cercano così altri e più vicini referenti: il consigliere provinciale, comunale, l’indipendente pronti ad ascoltare ed eventualmente recepire le istanze di questa parte del movimento che è pronto a ricambiare con voti sonanti come è successo a Roma con Veltroni e ultimamente a Napoli con De Magistris. Insomma, al di là delle mistificazioni linguistiche il concetto rimane sempre quello: condizionare una parte del potere per acquisirne un pezzettino. Altro che bene comune…
(A)Bird
 
 

Posse, Istituzioni del Comune, Manifestolibri, Roma 2008

Manco a farlo apposta, stavo come spesso capita naufragando in rete e mi aggrappavo qua e là ai link che più mi ispiravano, quando ad un tratto mi è passato davanti il sito di Posse: «Ah! Ma esce ancora? Ora fanno un sito? Buon per loro». Ciò esclamato, ho continuato la mia deriva virtuale come se niente fosse (non sono propriamente fedele di S. Antonio da Padova). Ma poi, ripensandoci, la curiosità mi ha spinto a tornare indietro. Da quanto avevo intravisto, Posse dedicava ampio spazio alle «Istituzioni del comune». E questo subito dopo la cancellazione della sinistra parlamentare dal Parlamento! Mica potevo perdermi l’occasione. Cosa avranno da dire gli eruditi teorici della Moltitudine insorgente a proposito dell’improvvisa scomparsa dei loro mezzani di palazzo preferiti? Così, ho cominciato a tuffarmi in quei testi. Ammetto subito che la mia non è stata una lettura approfondita; diciamo che ho dato una buona occhiata. A tutto c’è un limite, anche alla curiosità. Il gergo post-autonomo scroto-negriano riesce a nausearmi in fretta da tanto mi ricorda il latino arcaico dell’antica Chiesa. C’è in esso la stessa volontà sacerdotale di esprimersi in una lingua arcana per meglio tenere in pugno la vile plebaglia. «L’uomo è pronto a credere a tutto, purché glielo si dica con mistero», ammoniva un poeta. Deve essere per questo che preti & politicanti, cioè coloro che aspirano al ruolo di pastori delle umili greggi, amano tanto il linguaggio esoterico. A volte però, soprattutto sulla spinta di eventi particolari, le formule più bizzarre e incantatorie sono costrette a lasciar trapelare una certa schiettezza. Dunque, per la prima volta dal 1882 — periodo fascista a parte — la sinistra non ha più un deputato in Parlamento. Non un solo raggio di arcobaleno illuminerà l’austera sala, niente di niente. Da chi pensa che Guy Fawkes, Auguste Vaillant e Marinus Van der Lubbe siano stati i soli galantuomini che abbiano mai messo piede in edifici del genere, la notizia in sé va quasi accolta con un’ovazione. 126 anni di tradimenti, di compromessi, di ipocrisie; 126 anni trascorsi a contrastare i malfattori, gli agenti provocatori, gli untorelli che si annidano fra i sovversivi; 126 anni di realpolitik che ha addomesticato la rabbia rivoluzionaria trasformandola in civile protesta; tutto questo si è interrotto in un fine settimana di aprile. Ma per chi era abituato a giocare di sponda con gli “onorevoli compagni” in una prospettiva “di lotta e di governo”, si tratta di un colpo terribile. A quelli di Posse, che già avevano fiutato l’aria, non resta che fare buon viso a cattivo gioco. Invece di strapparsi i capelli, si affrettano a rilanciare il proprio progetto. Del resto, il loro smodato entusiasmo per il mondo in cui viviamo («la rivoluzione mondiale è in corso», ma vi rendete conto di che razza di culo abbiamo?) vieta loro ogni malumore. Se oggi il movimento è costretto a fare una battuta d’arresto è solo per meglio procedere trasversalmente in avanti.Ma avanti dove? Questo è il problema. In un momento in cui si consuma fino in fondo la tanto denunciata crisi della rappresentanza, in un momento in cui non c’è rimasto più nessuno che possa tradurre in diritto le proposte avanzate dalle lotte sociali, quale tratto potrà e dovrà assumere il «rapporto costituente fra movimenti e governo»? Tutta la loro affannosa riflessione ruota attorno a questo interrogativo (anche per evitare preventivamente pericolosi deragliamenti). L’unica certezza rimasta loro è che questo rapporto vada comunque instaurato, per il bene di tutti. Il trionfo della destra più becera e retriva rischia infatti di mettere fine a una dialettica che viceversa va coltivata, migliorata, approfondita. Inutile piangere troppo la dipartita della sinistra parlamentare, anche perché in fondo questa sinistra se l’è meritato. Sentiamoli: «Un po’ di tempo fa indicavamo come oramai dispiegato il fenomeno di scollamento fra rappresentanza politica e movimenti, fra agire amministrativo e nuovi bisogni portati dalla modificazione della composizione sociale. Si avanzava allora l’idea di un rovesciamento relativo all’asse di programma politico tra partiti e movimenti. Non funzionava il dispositivo che vedeva nei movimenti una spia di contraddizione sociale, che andava sciolta sul piano normativo attraverso un’opera di traduzione e inserimento nel quadro programmatico custodito dal partito, o meglio non solo si contestava l’idea che le insorgenze sociali dovessero essere subalterne all’agenda riformista, ma anche il fatto che lo spazio politico di quel riformismo caro alla sinistra radicale fosse chiuso. Il rovesciamento che indicavamo si basava su una concezione dello spazio politico come luogo dove potesse esercitarsi un primato delle lotte sociali che i movimenti portavano avanti sull’agenda e il quadro programmatico della governance rappresentativa di sinistra, che avrebbe dovuto ritagliarsi fondamentalmente funzioni di servizio».Insomma, c’è aria di tempesta in casa della “sinistra radicale”. Dopo la batosta elettorale è giunto il momento della resa dei conti. Chi stava al governo non dava credito a chi andava in piazza, il quale l’aveva avvisato dei rischi cui sarebbe andato incontro se si fosse intestardito a snobbare le aspirazioni che partivano dal basso, ed ora quest’ultimo si prende la sua rivincita: «pezzo di cretino, non mi hai dato ascolto ed ora hai visto cosa è successo? non sono io che ti devo fare da cameriere, sei tu che lo devi fare a me!». Ecco qui tutta la sostanza del contendere: chi spinge chi? È il partito che deve indicare i punti di attacco delle lotte, o sono le lotte a determinare la linea del partito? È facile prevedere che il dibattito in materia sarà lungo ed aspro, ma è altrettanto facile scorgere quale sia la vera posta in palio. La proficua sintonia fra istituzioni e movimento, il loro felice matrimonio. L’ipotesi di sancirne il divorzio definitivo non viene  mai presa in considerazione da costoro, perché non è politicamente produttiva. Per Posse la presenza di un referente istituzionale è ovvia, scontata, indispensabile.Il perché è presto detto. Per loro il governo ha la forza normativa, ma non ha creatività: è potere costituito, con tanti muscoli ma niente cervello. Il movimento invece è sprovvisto di autorità, ma è ricco di intelligenza: è potere costituente, gracile ma pieno di talento e d’imprevedibile genio. Ogni progresso, ogni evoluzione, ogni passo avanti della storia deriva dall’incontro fra questi due handicappati, che si mettono l’uno al servizio dell’altro. Un rapporto conflittuale, il loro, ma pur sempre fecondo. A differenza di chi vede nello Stato una forza oppressiva e parassitaria, perciò un nemico da distruggere, i Negri boys lo vedono come una forza necessaria ma imperfetta, quindi un interlocutore da influenzare. Con un nemico non si discute e non si tratta, lo si combatte. Con un interlocutore, viceversa, per quanto possano essere diverse le vedute e gli interessi, per forza di cose si dialoga, si contratta, e quando si alza la voce è solo per attirare l’attenzione dell’altro e invitarlo ad un tavolo comune. Per i nemici dello Stato le lotte devono ostacolare e fermare la  folle corsa istituzionale, per i suoi interlocutori esse devono orientarla e stimolarla. Quando, sulla spinta delle agitazioni sociali, chi detiene il potere è costretto a riprendere e a far proprie alcune tematiche di chi lo critica, i suoi nemici insorgeranno contro il recupero delle loro idee (fatto negativo che neutralizza le lotte, indebolendo il movimento), mentre i suoi interlocutori esulteranno per il successo delle loro idee (fatto positivo che premia le lotte, rafforzando il movimento). Per questi ultimi ogni lotta, ogni rivolta, è solo uno strumento con cui fare pressione sul governo, una rottura che precede l’integrazione da un punto di forza più vantaggioso.Ma, ora che non c’è rimasto nessun punto d’appoggio all’interno del potere centrale, cioè nel Parlamento, chi ascolterà le rivendicazioni espresse dal movimento? Che fare? Innanzitutto evitare di farsi prendere dalle «narrazioni tristi» che producono angoscia, sfiducia e scoraggiamento. Ecco quindi Posse blandire i militanti di sinistra delusi («donne e uomini per bene», «in buona fede», «donne e uomini di buona volontà») ed invitarli a rimettersi in marcia perché, nonostante le apparenze, la partita non è finita: «E per loro, per quella soggettività che residua tutt’altro che irrilevante, la questione se vi sia uno spazio politico, anche elettoralmente significativo, dentro le trasformazioni che stanno lavorando il sistema istituzionale della rappresentanza, è tutt’altro che risolta… I tremendi rischi ma anche le nuove occasioni di lotta, che tale scenario presenta, disegnano pure… lo spazio di una ricerca autentica, in grado di azzardare sperimentazioni che, anche sul terreno istituzionale, cerchino di mettersi in effettiva comunicazione con quanto si determina sul terreno del conflitto, dei movimenti sociali e della loro autonoma capacità di costruzione delle “istituzioni del comune”».Ma se il percorso da seguire è chiaro — quello di un conflitto sociale in grado di «fare vivere un’istanza di nuovo programma» — lo è assai meno la sua destinazione finale. «L’istituzione del comune» è un’immagine rustica,  familiare, che cerca di conciliare la partecipazione dei molti con il potere dei pochi, di colmare la distanza che si è venuta a creare fra conflitto e politica. Ma è vaga. Anche se il marketing politico di Posse le attribuisce «una linea genealogica che va dalle fratellanze operaie alle società di mutuo soccorso, dalla Comune al Soviet, dai consigli operai alle assemblee e i comitati dell’autonomia operaia», resta il fatto che per ora si tratta solo di una parola d’ordine mobilitante, e nulla più. Un po’ poco per chi era abituato a contribuire a consulenze e progetti-legge, ricevendo protezioni e finanziamenti. Si tratta di una limitazione che non viene taciuta: «Non ci nascondiamo, tuttavia, le difficoltà di intervento politico che questa situazione comporta: difficoltà che attengono sia alla “stabilizzazione” delle lotte, al loro produrre forme di contropotere che garantiscano la riappropriazione di “quote di valore” (decisionale, simbolico, materiale), sia all’individuazione di funzioni di mediazione e “traduzione”».Per dare un po’ di entusiasmo ad un popolo della sinistra piuttosto depresso, Posse porta alcuni esempi concreti dei buoni esiti registrati da un incontro fra movimento ed istituzioni. In attesa che dalla nebbia emergano i futuri interlocutori del «potere costituito», è bene sgombrare il già accidentato campo da eventuali perplessità sul conto dell’effettivo «potere costituente» del movimento. C’è forse qualcuno che tentenni ad «assumere il potere costituente non solo come fatto originario, ma come forza continua che si insedia nei processi costituzionali, come fonte di un’apertura indefinita e capacità di liberare il diritto, la costituzione sociale, dai limiti dell’egoismo proprietario e dell’invadenza totalitaria del capitalismo?». C’è qualcuno che osi domandarsi: «È possibile inserire il potere costituente come fonte — continua, instancabile, assoluta — di diritto nella Costituzione, nel potere costituito?». Per sciogliere simili fastidiosi dubbi è sufficiente volgere lo sguardo all’America Latina, dove «il potere costituente è infatti assunto come una forza giuridica che vive e produce continuamente effetti all’interno del potere costituito, nell’intimo della Costituzione. Il potere costituente è movimento istituzionale e istituzionalizzante. Pone la continuità della trasformazione strutturale all’interno della continuità istituzionale. Il potere costituente può dunque essere verificato come fonte interna dell’ordinamento giuridico. (…) Vale a dire che il rapporto tra movimenti e governo potrà finalmente essere riconosciuto come un processo immanente, come una capacità continua di produzione».Se qualcuno pensasse che l’America Latina è troppo lontana per essere presa come modello, allora è bene che dia un’occhiata a quanto è accaduto in Val Susa. È vero che il suo contesto bucolico smentisce apertamente i precetti altrove enunciati su quale debba essere lo scenario del conflitto sociale («la metropoli è incontro e antagonismo, produrre ed essere prodotti, ed attualmente rovesciare il produrre contro l’essere prodotti — in uno spazio determinato che rappresenta per la moltitudine quel che la fabbrica era per la classe operaia. È evidente che su questo terreno bisognerà a lungo insistere ed approfondire la ricerca. L’organizzazione metropolitana è ancora lontana dal potersi affermare, eppure è su di essa che si spazializza e si determina in maniera concreta il tempo della moltitudine»), ma si tratta di quisquilie. La lotta valsusina è meritevole di essere elevata ad esempio da seguire per un preciso motivo, prettamente politico: «è noto come la compresenza coesa della dimensione istituzionale e di quella movimentista sia stata una delle ragioni principali dell’efficacia dell’opposizione valsusina: nei momenti più caldi del conflitto, i sindaci erano in prima fila a fronteggiare polizia e carabinieri. Questa intensa condivisione di obiettivi e strategie ha contribuito alla creazione di un circolo virtuoso tra agire amministrativo e partecipazione dal basso che ha segnato il punto più alto dell’esperienza di riappropriazione del potere decisionale che ha avuto luogo in Valle di Susa: consigli comunali, conferenze dei sindaci e assemblee popolari non rappresentavano che aspetti distinti di un medesimo processo decisionale complesso e tuttavia capace di prescindere quasi interamente dal meccanismo della delega».Finché c’è Stato, c’è speranza. Se dopo il 13 aprile non si può più fare affidamento su deputati e senatori, rimangono pur sempre sindaci, consiglieri e assessori in mezzo ai quali procurarsi utili alleati. Fra gli amministratori locali, qualcuno con cui ritrovarsi in piazza o con cui discutere di autonomia (che è un po’ come discutere di pace con un sergente dell’esercito) lo si rimedia. Basta non perdere mai la bussola e imparare a memoria il ritornello che Posse non si stanca di ripetere. Il movimento deve essere extra-istituzionale, ma non deve mai diventare anti-istituzionale. Bisogna quindi essere cauti, realisti, e sapere cosa scegliere: «Pratica disutopica piuttosto che esaltazione utopista». Non bisogna dare ascolto ai cattivi maestri capaci di sostenere che istituzionalizzare non è altro che trovare una sistemazione su questa terra, cioè venire a patti con l’attuale situazione. Non bisogna ostinarsi a respingere ogni istituzione, anche quella del «comune», solo perché il suo compito è quello di regolamentare, controllare, governare. Con impareggiabile stile, ci viene spiegato senza ritegno che la genealogia del comune è un lungo processo che «si realizza dunque in una potenza normativa del tutto coerente con i movimenti sociali. Non si tratta dunque di un’istituzione qualsiasi, si tratta bensì di un’istituzione autonoma — essa riesce a creare l’organizzazione dei movimenti, così come riesce ad esercitare una continua proposta ed indirizzo normativi. Come abbiamo visto per il passaggio dal pubblico al comune, l’istituzione che produce norme, che comanda, deve essere non solo legittimata dall’apertura continua del potere costituente, ma continuamente rinnovata dalla partecipazione effettiva ed efficace dei soggetti». Di fronte a questa esaltante ed esaltata apologia di una potenza normativa che comanda coerentemente i movimenti sociali che la producono, la legittimano, la compongono e la rinnovano, vale la pena ricordare che nell’elencare le «forme di vita» valorizzate dal comune viene inclusa anche «la pace sociale»? Come si può vedere, l’immaginario statale impregna e domina ogni riflessione di Posse, ne costituisce l’orizzonte obbligato. Ma cosa potrebbe mai accadere se il movimento, dopo averne infine constatato l’assoluta inettitudine, snobbasse ogni sbocco istituzionale? Che tutte le lotte sociali tenderebbero ad assumere i tratti di rivolte senza mediazioni, irriducibili, incontrollabili, proprio come avveniva in passato prima dell’istituzione della rappresentanza. Un abominio da scongiurare, un vero incubo non solo per i più intelligenti funzionari di Stato (che non a caso fingono di prestare ancora ascolto ai portavoce della “sinistra radicale”), ma anche per chi approva la rivolta solo se questa è «una via d’accesso al politico». Nel  testo sui disordini e sulle lotte sociali scoppiate in Francia negli ultimi anni, l’autore — dopo aver annotato le iniziative degli squat e dei sans-papier in quanto gli «animatori nazionali di queste lotte sono diventati degli interlocutori dello Stato» — arriva dritto dritto al punto cruciale: «Vi è un’alternativa politica alla rivolta? Questo è il problema adesso. Questa alternativa non si trova sicuramente sulla scena della rappresentanza tradizionale (…) si pongono due problemi. Il primo è quello dell’aggregazione delle lotte, della messa in comune dei comuni dispersi. Il secondo è quello della “strategia” cioè del rapporto con lo Stato (…). Queste lotte non possono o non vogliono essere l’oggetto di una “rappresentazione politica” all’interno dello Stato. Lo spazio della lotta per un altro modo di vita comune e quello del potere sono oggi separati. Il pensiero strategico di tipo leninista ha perso la sua pertinenza. Bisogna dunque distaccarsi dalla questione classica delle elezioni? È difficile da pensare. Ma allora come agganciarle? Una delle piste all’opera se si abbandona la figura della rappresentazione elettorale è quella della scelta dei futuri interlocutori dei movimenti (…). Per questo, l’alternativa alla rivolta va senza dubbio ricercata nella tensione costante della trattativa con lo Stato (nazionale, locale o europeo). Da questo punto di vista la questione elettorale si prospetta così: dove si situano coloro che gestiscono questi territori e gli interlocutori del movimento nella scelta strategica che gli si pone oggi? (…) adesso bisogna costruire la metropoli quale attore collettivo e cooperante con capacità permanente di trattare con i luoghi della decisione politica e finanziaria nel quadro di una governance conflittuale». Parole una volta tanto chiare e illuminanti: ora che i tradizionali padrini parlamentari sono scomparsi o comunque delegittimati, bisogna trovare nuovi interlocutori statali con cui trattare al fine di trovare un’alternativa politica alla rivolta.È una caratteristica di tutti gli intellettuali dediti alla critica politica, a cui i redattori di Posse non sfuggono, di essere affetti dalla «sindrome di Siracusa». Come Platone, anch’essi pensano che «i mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello stato». Essendo preclusa la via della conquista diretta del potere politico, rimane loro soltanto la possibilità di sedurne i detentori con la grazia del proprio «general intellect». È da qui, da questa allucinazione cerebrale, che viene la passione per Machiavelli, insuperabile modello per tutti gli aspiranti consiglieri dei principi (soprattutto per chi è cresciuto all’ombra di Lenin, con la sua coscienza da apportare dall’esterno, e di Gramsci, con la sua egemonia culturale che precede quella politica). Se poi non ci sono più in circolazione personaggi della statura di Dionigi o di Lorenzo il Magnifico, pazienza: vorrà dire che i redattori di Posse si accontenteranno dell’esotico Hugo Chavez o della casereccia Livia Turco. Fortunatamente anche loro, come tutti i loro predecessori, sono destinati o a rimanere inascoltati o a porsi al seguito del potere che si erano illusi di guidare. Quanto alla cosiddetta «moltitudine», non si compiacerà mai abbastanza della perdita di una rappresentanza. I suoi disordini, non servendo più solo per attirare l’attenzione del sovrano da pedagogizzare ed indurlo ad accogliere a corte qualche sobillatore che gli porterà in dote le proprie competenze, potranno tornare ad essere quello che sono sempre stati: le esplosioni di rabbia di una volontà di vivere troppo a lungo repressa.

[da Machete n. 3, novembre 2008]

Scaricalo qui: Machete num.3, nov. 2008

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Lucciole e lanterne

volantino distribuito al corteo NOTAV di Roma
da: finimondo
 
 
«Democrazia! Ormai lo abbiamo compreso che significa tutto ciò.
Democrazia è il popolo che governa il popolo a colpi di bastone per amore del popolo»
Oscar Wilde

 

Dall’aula di Montecitorio a quella del tribunale di Milano, dai marciapiedi della stazione di Torino alle camere di sicurezza della questura di Firenze, dalle metropoli ipervigilate alle valli straziate, per non parlare delle retate poliziesche in tutta Italia, non passa giorno senza che gli animi non rimangano scossi da qualche particolare vicenda politica o di cronaca. E immancabilmente spunta qualcuno che lancia l’allarme sull’«emergenza democratica oggi in corso nel nostro paese», risolvibile, com’è ovvio, con uno scrupoloso rispetto di norme e leggi. Persino quanto è successo ieri mattina in Val di Susa, la caduta non accidentale di un anarchico dal traliccio su cui era salito per protestare contro il TAV e l’esproprio dei terreni, suoi o non suoi poco importa, è stato subito ricondotto all’interno di questo discorso dominante quanto deprimente. E se dalla canea reazionaria si sottolinea l’illegalità del gesto di protesta, anche da buona parte del movimento si fa l’elenco interminabile delle illegalità dei lavori e del loro proseguimento (a dimostrare la legittimità dell’opposizione).

Se la mente non fosse altrove ad ardere di rabbia, ci sarebbe da interrogarsi su come l’orizzonte democratico — nonostante la sua palese aberrazione — abbia potuto colonizzare a tal punto l’immaginario individuale oltre che collettivo. Qual è la democrazia a cui si dovrebbe fare ritorno, quella uscita dalla Resistenza che ha graziato i fascisti e arrestato i partigiani più indomiti? Quella che è stata gestita per lunghi decenni nelle sagrestie e nelle segreterie dalla Democrazia Cristiana? Quella delle stragi di Stato e delle leggi speciali? Quella degli accordi neanche troppo sotto banco con la Mafia? Quella delle tangenti e delle speculazioni? Quella degli «italiani brava gente» che nelle loro missioni militari all’estero stuprano, torturano e massacrano? A questo siamo arrivati dinanzi a nani e ballerine, a rimpiangere grigi burocrati politici o a preferire ingessati funzionari tecnici? Ragionieri, ecco quel che si finisce col diventare, cauti ragionieri che soppesano le conseguenze, pensano alle strategie e alle tattiche più adatte per non scoprirsi inadeguati, per sentirsi sempre sulla cresta dell’onda, per cavalcare i marosi sociali… Perché, quando si cessa di misurare e calcolare, si rischia di piombare giù.

Ma se, a ben pensare, c’è sempre stata una «emergenza democratica», è proprio perché la «normalità democratica» in grado di garantire libertà e benessere per tutti non può esistere. È un mito, una pura menzogna che andrebbe demistificata, ma che purtroppo non corre molti rischi di crollare finché le scintille di sedizione saranno acconciate sotto le più presentabili vesti di laboratori di democrazia.

No, non è un regime politico ad essere rimasto folgorato sul traliccio che dà energia a questo mondo miserabile. Non è la sua vita ad essere oggi in pericolo. Semmai, è la possibilità di intravedere qualcosa di assolutamente altro e di battersi in suo favore — di slancio, senza briciole di calcolo, come fa chi sfida l’alta tensione. Una possibilità che oggi giace anch’essa in coma, e che va rianimata, curata, protetta, difesa, rafforzata, allargata, diffusa. Amata. Una possibilità che non chiede giustizia, ma vuole vendetta. Che non ha solo un treno da fermare, ma un mondo intero da abbattere.

Anarchici

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[ROMA] Benefit A/I – NerdPunkTrashCore

Venerdì 9 marzo, dalle 22.30 in poi – “Nuova tecnologia… vecchia scuola: la solita musica”, ovvero come continuare a fare musica con il tuo PC anche quando Ableton non sarà più né di moda, né supportato. Si parla di linguaggi di programmazione visuali per la creazione audio/video, di reti e protocolli di comunicazione musicale, di strumenti liberi e di dominio pubblico.
A seguire: Gabbroral Complex liveset + DBVRST djset

Sabato 10 marzo, dalle 18.00 in poi – “Repressione, difesa della libertà e dei diritti in rete”, ovvero due chiacchere su A/I e mondi vicini/lontani: la censura in Italia e nel mondo, gli strumenti legali, la repressione istituzionale, e due chiacchiere sul progetto A/I , a dieci anni dalla nascita.
A seguire: Livore + Ludd Rising + Congegno + Cattivo Sangue LIVE

CSOA Forte Prenestino, via Federico Delpino – Roma

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