Questo testo è la sintesi del confronto e della discussione tra i compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese.
19 luglio. L’estate No Tav, partita in sordina, sta entrando nel vivo. Alcune decine di tende sono piantate nella piana di Venaus.
Circa 400 No Tav partono da Giaglione lungo la strada delle Gorge per una notte di lotta al cantiere. Da alcuni giorni la Prefettura ha fissato i confini di una nuova zona rossa intorno alle recinzioni. I divieti non hanno mai fermato i No Tav, non lo fanno nemmeno questa volta. Protagonisti della serata sono soprattutto i solidali che, come ogni estate, sono accorsi in Val Susa. Alcuni percorrono di notte i sentieri per la prima volta: la serata è molto scura, le nubi coprono la luna quasi piena.
La polizia è fuori dalle recinzioni, schierata oltre il ponte sul torrente Clarea: all’arrivo dei primi No Tav partono le cariche. La A32 anche questa volta è stata chiusa. Dieci blindati la percorrono con i lampeggianti spenti e si fermano sul viadotto nei pressi del cancello che immette sulla strada delle gorge. Altre volte i militari avevano scelto questa posizione per sparare dall’alto lacrimogeni sui manifestanti imbucati nel sottopasso della A32. Questa volta, dopo i gas avanzano le truppe, che spezzano in due in manifestanti, intrappolandone circa 150 nella zona dei Mulini. Un punto molto pericoloso per una manovra che non lascia vie di fuga: da un lato la gorgia scende brusca, dall’altro c’é una zona di vigne abbandonate, franosissima.
Nel buio piovono le manganellate, il gas soffoca ed acceca, molti gridano in preda al panico, cercando di inerpicarsi sul costone, scivolando in mezzo alle pietre che rotolano.
La polizia fa il suo bottino: 9 no tav vengono presi e portati nel cantiere. Lungo il tragitto botte, insulti, colpi di manganello. Un’attivista pisana, Marta, viene colpita in faccia da una manganellata che le spacca il labbro superiore, mentre gli eroi dell’antisommossa la palpeggiano tra le gambe, le toccano i seni, la insultano. Un ragazzo di 17 anni sviene per le botte e si ritrova nel fortino con fratture e la faccia piena di sangue. Gli uomini in divisa mirano sempre al volto, per nascondere sotto un velo rosso lo sguardo e l’umanità di chi lotta perchè immagina un mondo diverso da quello in cui siamo tutti forzati a vivere.
Gli arrestati vengono tutti percossi con violenza anche dopo l’arresto: trascorreranno ore prima di essere portati in ospedale e, di lì, alle Vallette. Le loro storie, raccolte nelle ore e nei giorni successivi, sono normali storie di tortura.
Per chi riesce ad allontanarsi comincia una lunga marcia notturna, nel silenzio dei boschi che nascondono i No Tav dalla caccia dei poliziotti che li braccano. Chi era riuscito a sfuggire alla trappola torna a Giaglione. Qualcuno si massaggia un braccio, altri hanno la testa che sanguina, altri ancora una commozione cerebrale e una caviglia rotta. Comincia la spola per portare i feriti più gravi all’ospedale. Il lento e duro ritorno dei No Tav termina all’alba. Chi arriva, sfinito, trova i propri compagni che attendono da ore. I primi racconti descrivono la violenza della polizia e la solidarietà che prevale dopo il panico, nel mutuo appoggio tra i boschi: un goccio d’acqua, qualcosa da mangiare che viene condiviso tra tutti.
Il giorno dopo il campeggio di Venaus sembra un ospedale da campo: chi zoppica e chi esibisce vistose fasciature, bende in testa, cerottoni, ingessature. Il bilancio finale è di 63 attivisti feriti. Anche la polizia sostiene che sarebbero una quindicina gli uomini e le donne in divisa feriti e contusi.
La questura nella sua conferenza stampa recita un copione ormai consolidato. Vengono esibite maschere antigas, qualche petardo, qualche bastone, il solito “mortaio”. In bella mostra c’é il bottino di una guerra in cui non vengono mai mostrati i manganelli insanguinati, i fucili che sparano i gas, le maschere dei poliziotti e dei carabinieri, i bossoli dei lacrimogeni. Nei confronti degli arrestati vengono formulate accuse durissime: resistenza, violenza, porto di armi da guerra.
Martedì 23 luglio il GIP convaliderà gli arresti e disporrà i domiciliari per sei No Tav e l’obbligo di firma quotidiano per il settimo. Gli altri due fermati nella notte del 19 erano stati denunciati e rilasciati a piede libero all’alba del 20 luglio.
Il giorno dopo il senatore democratico Stefano Esposito scriverà sul suo blog indicando un esponente del comitato No Tav di Bussoleno come mandante del tentato assalto al cantiere. Già nei giorni precedenti aveva accusato il settimanale anarchico Umanità Nova di incitare alla violenza, per un articolo scritto da Maria Matteo, titolato «soldi e sabotaggi». Non pago Esposito arriverà a sostenere che l’attivista pisana molestata pesantemente durante l’arresto aveva mentito e si era meritata gli otto punti necessari a rattopparle il labbro spaccato.
La mattina del 20 luglio tra chi tornava alla propria vita dopo la notte in Clarea, qualcuno avrà ricordato che 12 anni prima, in luglio sin troppo assolato, un carabiniere aveva sparato in faccia ad un ragazzo di 23 anni.
Il 23 luglio una fiaccolata percorre le vie di Susa. Il corteo – 2000 persone – era aperto dalle donne solidali con Marta, la No Tav pisana ferita e molestata sessualmente da alcuni poliziotti dei reparti antisommossa il 19 luglio. I No Tav hanno sostato lungamente di fronte all’hotel Napoleon, che ospita carabinieri di stanza alla Maddalena, di fronte alla pizzeria Mirò che ha stipulato una convenzione con gli occupanti, e al comune, schierato con la lobby del Tav. La manifestazione si è conclusa di fronte alla villetta del sindaco Gemma Amprino.
Sin qui la cronaca.
La polizia ha deciso di alzare il livello dello scontro. Una scelta pianificata e sin troppo prevedibile. La presenza nel cantiere di due magistrati come Padalino e Rinaudo, già titolari di numerose inchieste contro l’opposizione sociale in provincia di Torino, la dice lunga sulla pianificazione della mattanza del 19 luglio.
I media da settimane avevano ripreso a pubblicare articoli incendiari contro il movimento No Tav, accusato di essere ostaggio di professionisti della violenza, di aver ceduto il campo agli specialisti venuti da tutta Europa per fare la guerra allo Stato.
Tra gli articolisti che hanno commentato gli eventi in Clarea si è distinto Paolo Griseri, che definisce il rapporto tra il movimento valsusino e i solidali venuti da fuori come una sorta di outsourcing degli scontri più duri. Un’esternalizzazione consensuale, una sorta di patto tra gentiluomini. Va dato atto a Griseri di avere l’onestà intellettuale di non sostenere la tesi della divisione tra buoni e cattivi, che viene sempre smentita dai fatti. Ogni volta un’assemblea popolare, una manifestazione con grandi numeri, una marcia di tutti al cantiere, hanno dimostrato l’inconsistenza di un’argomentazione che ha più il sapore della speranza che serietà nei fondamenti argomentativi.
Più pragmatico di Griseri, Numa punta su una tesi intermedia: la perdita di controllo del movimento valsusino e un accordo – cui regala anche il nome suggestivo di «Patto del Cels» – tra anarchici ed autonomi, separati su tutto ma uniti nel perseguire attacchi violenti.
Significativo che la maggior parte dei commentatori abbiano minimizzato, talora censurato e persino negato le violenze subite dai No Tav.
Un mondo in bianco e nero, sostanzialmente asservito alla lobby del Tav. Nulla di strano. L’informazione è oggi uno dei pilastri nella costruzione del consenso intorno a scelte non condivise. La criminalizzazione e l’isolamento dell’opposizione riescono meglio se le scelte disciplinari più dure vengono sorrette da un buon lavoro di propaganda.
Proviamo a mutare prospettiva. Al di là dei fatti che abbiamo provato a ricostruire e della valutazione che ne hanno dato politici e media.
C’è una domanda che il movimento No Tav non può eludere. Perché il governo, il prefetto, la polizia hanno ritenuto fosse possibile un’accelerazione repressiva? Anche i giornali hanno scritto di una sorta di cambio di strategia.
Nelle tante riunioni tenutesi in questi giorni molti ipotizzavano che da un lato la compagine governativa che sostiene il Tav sia oggi più forte che in passato, altri hanno puntato l’indice sul sempre più scarso entusiasmo del governo francese verso la Torino Lyon.
Nessuna di queste ipotesi ci pare convincente, perché in Italia le maggioranze a favore del Tav sono sempre state forti e le esitazioni della Francia non sono certo una novità.
La posta in gioco – non certo da oggi – va ben al di là della torta Tav. Non è più solo una questione di treni: in ballo c’é il disciplinamento di un movimento popolare che non si è mai rassegnato all’occupazione militare. I No Tav non si sono mai arresi. Mese dopo mese, sin dallo sgombero della libera repubblica della Maddalena, ci sono state azioni di contrasto, serate informative, presidi, blocchi, occupazioni dell’autostrada e sabotaggi. Il movimento No Tav non ha mai voluto trasformarsi in impotente testimone dello scempio, limitandosi alla denuncia delle sciagure senza far nulla per impedirle.
Nonostante gli arresti, i feriti, i processi, i fogli di via, le violenze della polizia, nonostante il continuo tentativo di dividere i buoni dai cattivi, i No Tav hanno resistito.
Va rilevato che il cambio di passo avvenuto nella notte del 19 luglio riguarda solo l’ultimo anno. Prima, dall’assedio del 3 luglio 2011 al primo campeggio di Chiomonte, dalla mattanza dell’8 dicembre 2011 in Clarea, alle feroci cariche in autostrada del 29 marzo 2012 i governi di turno non si erano certo sottratti al dovere pedagogico di imporre ai resistenti numerosi corsi accelerati di dottrina dello Stato. Corsi molto utili e formativi per i No Tav. Certo non tutti partecipano alla lotta per «fare la guerra allo Stato», tuttavia grazie alla violenza dispiegata in questi anni molti hanno migliorato le proprie conoscenze sulla democrazia reale. In futuro i peggiori incubi dei nostri avversari potrebbero persino avverarsi.
Nell’ultimo anno i governi hanno puntato sulla rassegnazione, sull’accettazione del fatto che i lavori per il tunnel geognostico sono cominciati davvero, che le azioni al cantiere sono inutili, perché l’azione preventiva delle forze dell’ordine rende pressoché impossibile raggiungere il cantiere. Dopo la prima passeggiata notturna dell’estate 2012 l’azione della polizia è stata rivolta a chiudere ogni accesso, obbligando i manifestanti a lunghissime camminate nei boschi per riuscire solo a tratti ad avvicinarsi alle reti.
Su di un altro piano, le azioni di contrasto dell’occupazione militare, di sabotaggio collettivo delle ditte collaborazioniste, di intralcio dei lavori del cantiere con blocchi e con il presidio a Chiomonte non hanno mai avuto lo slancio necessario a fare massa critica.
La risposta di alcuni ad una situazione frustrante sono state le azioni notturne a sorpresa contro il cantiere e, successivamente, anche otto sabotaggi a mezzi delle ditte fuori dal cantiere.
Il movimento No Tav in un’assemblea popolare ha deciso di appoggiare la pratica del sabotaggio diretto alla distruzione di beni materiali senza colpire le persone.
Una scelta giusta che tuttavia rischia di produrre nei fatti una divisione tra chi agisce e chi plaude le azioni. Come scriveva la nostra compagna nell’articolo che ha suscitato le attenzioni del senatore Esposito «I sabotaggi sono il segno tangibile di una tensione forte a non arrendersi ai giochi della politica istituzionale, ma se restano patrimonio di pochi, cui i più delegano la lotta, possono rappresentare il canto del cigno del movimento.
Occorre creare le condizioni perché i tanti che plaudono ma non partecipano in prima persona si impegnino direttamente nelle azioni. Il cantiere di Chiomonte è il luogo scelto dallo Stato per giocare con violenza la propria partita: sinora i governi e la polizia hanno sbagliato poche mosse, facilitati da un terreno che li favorisce.» Chiomonte è stata scelta per il cantiere perché era il posto ideale per fare la guerra. Un luogo lontano dagli occhi, dall’indignazione, dal passo di un movimento popolare.
Allo Stato serve la guerra, perché la guerra è l’ambito degli specialisti, allo Stato piace la guerra perché ha il monopolio formale e materiale della violenza. Lo Stato ha i mezzi per alzare il livello dello scontro. Quando il governo decide gli apparati repressivi eseguono con gran gusto gli ordini ricevuti.
Dopo un anno non facile per il movimento No Tav, troppo a lungo sedotto dall’illusione elettorale, lo Stato si sente più forte e lancia l’offensiva.
Oggi il governo non teme più un’insurrezione popolare in risposta alle violenze del 19 luglio. Sebbene sappia bene che il popolo No Tav appoggia le azioni, sa tuttavia che quest’appoggio è soprattutto morale. La materialità dello scontro divide chi pure resta unito sia sugli obiettivi sia sui mezzi per perseguirli.
La sfida difficile che il movimento No Tav deve affrontare è rimettere in pista tutti quanti. Qualcuno in prima fila, qualcun altro più indietro, altri ancora in fondo, ma insieme per far nuovamente lievitare la miscela di radicalità e radicamento che è la ricetta vincente dei No Tav.
Il prossimo anno dovrebbe partire la sfida per l’inizio del cantiere per il tunnel di base: in quell’occasione dovranno militarizzare il territorio, piazzando soldati, poliziotti e carabinieri, in mezzo alle case. Non avranno più il riparo di un angolo remoto come la Clarea, ma un luogo pieno di case, di gente. Ancora oggi, nonostante, non sia esplosa nei due anni precedenti, il governo non può sapere se di fronte ad espropri, camion, polizia in tutte le strade la risposta non sarà di resistenza e barricate. Non lo sanno ma ancora lo temono. Per questa ragione mirano a seminare la paura con le teste rotte, le gambe spezzate, le molestie, gli insulti, le calunnie. La notte del 19 luglio hanno chiuso i manifestanti in un budello senza uscita per dimostrare che sono in grado di controllare a piacimento il territorio, che possono gasare e pestare a pochi metri dal cantiere dove fervono i lavori. Non solo. In questo luglio la presenza dei militari è divenuta molto più visibile ed asfissiante: i carabinieri in hotel a Susa, invece che nelle stazioni sciistiche in alta valle, i continui posti di blocco sulle due statali, i controlli a tappeto sono il segno tangibile che lo Stato ritiene venuto il momento di mostrare nuovamente la propria forza.
Occorrerà molta intelligenza e una grande capacità di confronto per dare una risposta adeguata all’accelerazione decisa dal governo.
Il punto di partenza è il territorio. Sul piano politico e sociale sono tanti i nodi che stanno venendo al pettine: la crisi che sta costando lacrime e sangue ai più, mentre arricchisce i soliti pochi, consente di pensare a orizzonti di lotta più ampi, dove le alleanze tra i movimenti e il mutuo appoggio si estendano.
Le stesse articolazioni materiali del Tav si trovano ovunque sul territorio, offrendo larghi spazi di contestazione e lotta, capaci di coinvolgere tutti. Le lotte dure ma vincenti dei lavoratori della logistica hanno dimostrato che lo smistamento, la dislocazione e la circolazione delle merci è uno dei punti deboli in un’epoca in cui la gran parte del lavoro è asservito e ricattabile.
Queste lotte offrono anche al movimento No Tav numerosi spunti di riflessione su possibilità di azione sinora mai esperite sino in fondo.
Un accampamento/blocco di qualche centinaio di persone – uomini, donne, bambini, anziani, che piazzino tende, cucine da campo, campi da calcio, dandosi il cambio giorno e notte potrebbe impensierire seriamente i signori del manganello e del tribunale.
Tante piccole azioni, semplici e riproducibili, che inceppino la macchina dell’occupazione militare e del cantiere, che ha gangli e ramificazioni ovunque potrebbe – senza troppi rischi – creare grandi difficoltà a chi occupa, devasta, lucra sulle nostre vite.
Non c’è molto tempo. Come sempre occorrerà riflettere facendo e fare pensandoci su.
La forza dei No Tav è nel movimento popolare. Una pianta resistente ma delicata. È compito di tutti mantenerla viva.