Dichiarazione all’udienza per la sorveglianza speciale
I governi passano, ma gli articoli del codice penale restano.
Leggendo alcuni libri di storia sulle lotte rivoluzionarie in questo Paese mi sono imbattuto nell’applicazione dell'”ammonizione” – che coincideva di fatto con l’attuale sorveglianza speciale e che si accompagnava spesso con l’imposizione del domicilio coatto – fin dal 1877. A farne le spese nella primavera di quell’anno furono i membri delle sezioni italiane dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori di cui il governo aveva decretato lo scioglimento. A differenza di altri Paesi, l’Internazionale era nata in Italia su posizioni socialiste antiautoritarie e federaliste, in una parola anarchiche. La propaganda di Bakunin e, soprattutto, l’eco gigantesca che aveva avuto la Comune di Parigi, massacrata nel sangue dalla Repubblica di Thiers, avevano portato al pieno sviluppo le idee più radicali presenti nel Risorgimento italiano, quelle di Carlo Pisacane. E per ironia della sorte, ad applicare l’ammonizione contro gli anarchici nella primavera del 1877 era stato il ministro degli Interni Giovanni Nicotera, tra i pochi sopravvissuti alla spedizione pisacaniana di Sapri. Il 25 giugno del 1857 erano partiti in trenta da Genova e, liberati trecento prigionieri dalle carceri di Ponza, erano sbarcati nel Cilento il 28 giugno allo scopo di far insorgere le plebi del Mezzogiorno contro il governo borbonico e contro i proprietari terrieri. Quell'”accozzaglia di inceppati e di galerati” (così li definiva la stampa locale borbonica) fu in buona parte uccisa e i corpi degli insorti, fra cui quello di Pisacane, arsi in un rogo il 1° luglio.
Vent’anni dopo, un insorto diventato ministro degli Interni arrestava, ammoniva, mandava al domicilio coatto decine di anarchici colpevoli di voler ancora insorgere, ma questa volta contro la monarchia sabauda e i proprietari terrieri.
Nel richiedere la misura della sorveglianza speciale contro di me, i Pubblici Ministeri Amato e Ognibene, per conto della Questura, sostengono che il mio comportamento “offende e mette in pericolo la tranquillità pubblica”. Anche questa formula è tutt’altro che recente. Si trova anticipata quasi alla lettera dall’art. 426 di un vecchio codice penale, articolo votato nel 1879 sempre contro l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, definita “associazione di malfattori”. Si può dire tuttavia che il codice Zanardelli e poi il codice Rocco erano decisamente più “onesti” nel colpire anarchici, socialisti e comunisti, non nascondendo la natura politica della repressione.
Il comma usato dalla democrazia, nell’anno 2015, dichiara invece di colpire con la sorveglianza speciale “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Il legislatore monarchico e fascista tirava in ballo l’incitamento all’odio fra le classi sociali o il proponimento di sovvertire l’ordine costituito, e non affastellava nello stesso elenco i minori, la sanità e la tranquillità pubblica. Visto che, bontà loro, i PM non mi accusano di molestare minorenni, con l’uso tipicamente questurino della congiunzione “o” (che permette di inserire in un elenco tutto e il contrario di tutto) mi si vorrebbe sottoporre per due anni alla sorveglianza speciale e all’obbligo di soggiorno per aver messo in pericolo una alquanto generica “tranquillità pubblica”. Si potrebbe facilmente dimostrare che la cosiddetta tranquillità pubblica – a meno che non si voglia restringere la “sfera pubblica” al dominio esclusivo di ricchi, industriali, politici, dirigenti e questori – è messa in pericolo più dalla paura di non riuscire a pagare l’affitto e dalle condizioni di lavoro ogni giorno più precarie che non dall’azione degli anarchici. Ma non si tratta certo di una svista del legislatore. Essendo volutamente fumoso il fine di queste misure, i criteri per la loro applicazione sono a dir poco discrezionali. Nella stessa richiesta di sorveglianza, infatti, si può leggere: “ai fini della legittima applicazione di una misura di prevenzione non sono richieste le prove necessarie per la condanna e neppure gli indizi “gravi” richiesti in materia … , mentre sono sufficienti semplici indizi (…) in ordine al coinvolgimento del proposto nelle attività illecite che legittimano l’adozione dei provvedimenti di interesse”. E infine una perla che avrebbe fatto inorgoglire i dottori dell’Inquisizione: “Anche dalla sentenza di assoluzione possono essere ricavati elementi indiziari certi utilizzabili ai fini della prevenzione”. Alla Procura di Trento piace vincere facile. Prima mi fa arrestare all’interno di un’operazione definita “Zecche” (ah! che grottesco usare il latino “Ixodidae” per nascondere un linguaggio così smaccatamente mussoliniano…), poi, utilizzando quel castello di carte già crollato in tribunale, prova a mettermi in freezer per due anni senza bisogno di prove né di “indizi gravi”. E infatti nei verbali della Digos usati nel fascicolo per la richiesta della sorveglianza speciale ritorna come se niente fosse il “GAIT (Gruppo Anarchico Insurrezionalista Trentino)”, nome inventato dalla polizia politica per sostenere l’accusa di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” caduta nel corso del processo.
La Procura sarebbe stata più coerente se avesse fatto un passo ulteriore: chiedere la sorveglianza speciale come risarcimento per l’impiego di mezzi e uomini dispiegato nella fallita operazione “Zecche”. Non è forse riuscita a scrivere, nella richiesta di sorveglianza speciale, che “l’occupazione insistita di immobili è condotta che attenta la sicurezza e la tranquillità pubblica, ove si consideri, a tacer d’altro, dell’impegno (uomini e mezzi) impiegato per lo sgombero”? Convengo che bloccare un intero isolato con più di cento agenti, distruggere il tetto di un immobile e caricare occupanti e solidali abbiano scosso, a tacer d’altro, la tranquillità pubblica molto più dell’occupazione di un edificio vuoto da quindici anni. Ma far pagare – penalmente e, come vorrebbe il questore, anche economicamente – agli sgomberati le operazioni di sgombero è logica squisitamente torquemadesca.
Giunto a conclusioni anarchiche verso i sedici anni, ho deciso di dedicare la mia vita a cambiare radicalmente questa società ingiusta e insensata. Ho tracciato la mia esistenza in tal senso e le numerose condanne elencate dalla Procura testimoniano che non ho mai cambiato idea. Che sono rimasto, proprio come diceva la polizia politica durante il fascismo per legittimare la misura dell’ammonizione o del confino, “insuscettibile di ravvedimento”. E mi inorgoglisce il fatto di meritare, agli occhi di Questura e Procura, lo stesso provvedimento riservato dalla polizia sabauda e dall’Ovra a compagni ben più coraggiosi e combattivi di me.
Se cercare di mettere in pratica i princìpi dell’etica più alta che per me l’umanità abbia finora concepito – il sogno di un mondo senza servi né padroni, la fine di ogni privilegio economico e di ogni dominio politico attraverso la rivoluzione sociale – significa essere un “delinquente abituale” (in altra epoca si sarebbe detto “malfattore”), allora, sì, sono un delinquente abituale. I cosiddetti onesti cittadini che mai infrangono le leggi sono gli stessi che stavano a guardare quando in questo Paese si deportavano gli ebrei e si fucilavano i partigiani. Perché anche allora a resistere, a disertare, a insorgere fu una minoranza, per lunghi anni guardata con sospetto, denunciata, confinata in una dolorosa quanto fiera solitudine morale.
D’altronde che l’ammonizione fascista coincidesse in tutto e per tutto con la democratica sorveglianza speciale non l’ho imparato dai libri, ma ascoltando il mio amico e compagno Lionello Buffatto, comunista indomito, partigiano, antifascista della prima ora. Quando mi spiegava in cosa consistesse l’ammonizione che lo aveva colpito nel 1938, ho potuto notare che le restrizioni cui era stato sottoposto erano le stesse che il codice prevede anche oggi, con la sola eccezione che lui e gli altri ammoniti non potevano nemmeno, in quanto “cittadini indegni”, camminare sul marciapiede. Lionello, morto a novantasei anni in una stanza della casa di riposo in cui al posto della televisione c’era una kefiah palestinese attorcigliata, era stato raggiunto dalla misura dell’ammonizione per aver partecipato alla famosa riunione cospirativa svoltasi al bosco della città di Rovereto. Temendo che l’ammonizione si trasformasse in confino o in carcere prese la via dell’esilio con la moglie Gina e il piccolo Uliano. Dopo essersi unito al maquis francese, rientrò nella città della Quercia nel maggio del 1945.
E poiché la Procura, nella richiesta di sorveglianza speciale nei miei confronti, insiste, oltre che sulla mia partecipazione alla lotta contro il TAV in Valsusa, anche sulle recenti occupazioni di case e stabili abbandonati a Trento, vorrei raccontare qualcos’altro di Lionello. Tornato a Rovereto, egli fu nominato “commissario politico agli alloggi”. In quanto tale, decise di requisire una casa vuota in via Setaioli di proprietà dei Costa (arricchitisi ben bene durante il Ventennio) per alloggiarvi una famiglia di povera gente. L’allora comandante in capo delle truppe alleate a Rovereto, un certo colonnello Somer, convocò Lionello in commissariato per dirgli che quella casa doveva essere restituita ai legittimi proprietari, nel frattempo alleatisi con la nuova classe dirigente. Alla risposta di Lionello che non era tornato in Italia per accettare ordini fascisti, il colonnello Somer lo fece arrestare. Poiché le carceri di via Prati erano state bombardate nel gennaio del 1945, Buffatto fu rinchiuso in una segreta del palazzo di Piazza Podestà dove oggi c’è la caserma della Finanza. (Tra l’altro in quei luoghi aveva operato la famigerata “banda Carità”, detta anche dei toscanini, feroci seviziatori e torturatori al soldo dei nazisti, assolti tutti negli anni Cinquanta per aver agito “in stato di costrizione”…). Lionello fu liberato qualche giorno dopo grazie allo sciopero scoppiato in solidarietà con lui alla Manifattura Tabacchi.
Vedete, signori giudici, la vita è una questione di occasioni e di prospettiva. Essendo nato e cresciuto in un’epoca piuttosto grama di slanci generosi e di coerenza, ho cercato i miei maestri fra i tanti morti e i pochi vivi che non hanno mai piegato la testa.
Quello che sono riuscito a fare in tutti questi anni non è stato gran che, ma ho imparato una cosa importante. Ho imparato che ogni volta che mi sono battuto per ciò che consideravo giusto ho assaporato la gioia di essere a fianco degli onesti “malfattori” del passato e del presente; mentre ogni volta che ho ceduto mi sono sentito infelice e solo.
Per questo vorrei dirvi, con meno retorica possibile, che non ho alcuna intenzione di cambiare condotta e che non esiste misura che possa tenermi lontano dai miei compagni e dalle lotte.
Trento, 10 settembre 2015
Massimo Passamani