AGGIORNAMENTO del 23/05/2010
Continuiamo a pubblicare interventi di compagn@ sul dibattito apertosi dopo il ferimento di Adinolfi e le dure polemiche che hanno suscitato alcuni articoli (in particolare “W la FAI”. Oggi tocca ad un intervento di Massimo Varengo pubblicato su Umanità Nova di questa settimana, un articolo apparso su Finimondo e un intervento che abbiamo ricevuto anonimamente in mail.
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Velen(A) riceve e pubblica:
Tale era l’urgenza di dissociarsi: la legge è legge!
Luciano Lanza che scrive su rivista anarchica rivendica la sigla storica della FAI sul sito del Fatto Quotidiano, giornale giustizialista per eccellenza, i cui paladini sono giudici super pagati dallo stato come Caselli che mette in galera i compagni NO TAV o la Bocassini che sta processando diversi rivoluzionari. Serviva un sito seguito da una massa che latita da sempre nelle lande dei propagandisti del sol dell’avvenire: incapaci di far presa sulle masse cui anelano per attivare il processo di rivoluzione sociale anarchica. L’astensionismo è al 38%: Adesso o mai più! Lanza ha scelto di avere un blog nel sito del Fatto dove ricchi legalitari come Travaglio han la funzione di far sentire masse di sudditi apposto con la coscienza mentre fa i suoi elenchi di infamie politico-economiche commesse dal potere dei potenti. I sudditi gridano al cattivo di turno e vanno a dormire complici e laidi di consenso. Si dissociano dalla Federazione Anarchica Informale quelli di rivista anarchica: “non c’entrano niente con l’anarchismo, noi non li conosciamo” tuona il direttore della rivista Finzi dai microfoni di Radio Rai. Fa le veci della Federazione Anarchica Italiana Lanza con cui rivista anarchica rivendica ottimi rapporti e collaborazioni a josa.
Ricordo la violenza ideologica falsa e infamante scatenata da Francesco Codello, su rivista anarchica in un articolo del Giugno 2011, nei confronti di Vittorio Arrigoni dopo il suo funerale ( più facile infamare un morto)
Ricordo lo spudorato stravolgere il pensiero e la pratica di un valoroso compagno che ha lottato in prima persona con coraggio sotto le bombe assassine del potere e della guerra sioniste che mietevano vittime civili.
Ho letto il raccapricciante attacco strumentale alla madre di Vik rea di non aver fatto passare la bara del figlio in terra israeliana.
Ricordo il fango gettato in modo capzioso su Carlo Giuliani dopo il suo funerale da Paolella su rivista anarchica. Parole di sprezzo e cinismo nei confronti di un compagno che fu ucciso mentre si rivoltava durante il massacro di stato cileno del G8 di Genova.
Ho letto la boria ignorante e autoreferenziale di Andrea Papi su rivista anarchica dopo la rivolta di Roma del 15 Ottobre 2011 quando attaccò i rivoltosi mistificandone i fini.
Stravolgendo la verità dei fatti avvenuti nel corteo: scrivendo che i compagni aggredivano chi non seguiva le loro pratiche mentre invece i compagni vennero più volte aggrediti da democratici appartenenti a partiti vari che invocavano la polizia e da altri burattini come Casarini e Bernocchi che in quella manifestazione giocavano le loro partite politiche sottobanco.
Ricordo le cazzate spocchiose di Papi che nel 2009 pretendeva dalle pagine di rivista anarchica di dare lezioni di rivolta agli anarchici greci che infiammarono le strade dopo l’assassinio di stato del compagno Alexandros di 15 anni.
Senza tregua questi moralisti ossessivi sembrano dannarsi nel pontificare dettami che restano puntualmente inascoltati da chi probabilmente neanche li conosce non avendoli mai avuti a fianco.
Ho letto le calunnie e gli insulti di Paolella scritti su rivista anarchica nei confronti di studenti precari disoccupati operai che il 15 Ottobre a Roma si rivoltarono dopo essere stati attaccati con intenti omicidi dalle forze dell’ordine. Paolella definì i compagni meno giovani “psicopatici” e gli altri: “disadattati poverazzi provocatori assoldati infiltrati” Esempi lampanti della violenza verbale praticata da rivista anarchica, oltre che di pattume.
L’anarchico Lanza scrive sul Fatto: “Abbiamo seguito su “A” fin dall’inizio le gesta di questi informali, il loro uso della violenza fisica e verbale. Li abbiamo seguiti e li seguiamo con l’attenzione e la preoccupazione che meritano come ogni qualvolta si vuole confondere l’anarchismo con la violenza e il terrorismo”. La sensazione è tale che ironicamente viene da chiedersi: li avranno seguiti come degli investigatori privati che poi passano la velina all’autorità di un media di regime come il Fatto?
Gli anarchici della rivista anarchica sono preoccupati dagli anarchici informali.
Preoccupati di venir confusi dai birri e dai media. Confusi nelle pratiche. O meglio nelle teorie. Si palesano ancora una volta gli intenti revisionisti e mistificatori di rivista anarchica. La storia dell’anarchismo è anche storia di violenza e di atti di terrorismo nei confronti della classe dominante. Che piaccia o no. Che ci si preoccupi di cancellarli o no. Che ci si dissoci o no.
Codello nel 2001 su rivista anarchica scrisse il proponimento revisionista:
“Un anarchismo per il xxi secolo non può non considerare indispensabile ripensare e superare quella parte del suo pur straordinario patrimonio storico di esperienze che hanno avuto ragione e senso in un epoca storica che non c’è più. Quella che termina con la rivoluzione spagnola del 36-39”. La storia dell’individualismo va ripensata e superata secondo loro. Dato di fatto è che molti individui di molti paesi non la pensano così.
Come dice tra l’altro Oreste Scalzone commentando la rivendicazione del presunto attentato di Genova ad opera FAI-cellula Olga: “Siamo ormai ben oltre il discorso di La Boetie e la servitù volontaria è diventata una sorta di compenetrazione, una consustanzialità tra uomo e capitale. Tra uomo e dominio.”
C’è gente per cui lo stato è ormai un dogma biopolitico. Loro problema e nemico è chi eventualmente agisce contro lo stato. Lo stato che tutti gli anarchici vorrebbero abbattuto perchè causa di tutti i mali, al di la di patentini che certi vigili urbani pretenderebbero di rilasciare dall’alto di ignote autorità.
“Niente abbiamo a che spartire” titolava la scomunica per i black block ad opera di rivista anarchica e altri circoli dopo il massacro cileno del G8 di Genova del 2001.
C’è gente che nella vita dissente dallo stato mentre in esso ha trovato il proprio ruolo sociale e la propria sicurezza economica. Le loro parole stonano incomprensibili al confronto con le parole di chi dallo stato viene ferocemente impoverito, attaccato, perseguitato.
A contare è sempre stata la parola e l’azione di chi allo stato si ribella!
Un anarchico individualista
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Armi della critica e critica alle armi
di Massimo Varengo
“Quando si sta portando una rivoluzione per la liberazione dell’umanità, bisogna avere rispetto della vita di ogni uomo e di ogni donna… Il terrorismo viola la libertà degli individui e perciò non può essere utilizzato per costruire una società anarchica”.
Michail Bakunin
L’immediata gestione mediatica del mostruoso attentato di Brindisi la dice lunga su quali sono le intenzioni dell’oligarchia al potere. Un atto vile, di terrorismo indiscriminato, in stile iracheno, contro delle giovani donne, antisociale e criminale, viene tranquillamente assimilato ad episodi di lotta armata, magari con origini greche, con contorno mafioso, con l’obiettivo palese della realizzazione dell’unità di tutti gli schieramenti in difesa dello Stato, un’unità che abbiamo visto all’opera negli anni della solidarietà nazionale, delle leggi speciali, dell’arretramento sociale e culturale del paese.
Ma segnali di questo modus operandi li avevamo già registrati nei giorni precedenti.
In un ufficio dell’Ansaldo Energia è apparsa una scritta, piccola piccola, dieci centimetri in tutto, a matita pare, con una minaccia di morte al presidente di Finmeccanica, Orsi. Accompagnata da una stella a cinque punte e la sigla B.R. Basta questo evidente sfogo di un impiegato incazzato contro i suoi capi, per alimentare la canea mediatica sul pericolo terrorista.
Se si andasse in qualsiasi cesso a rilevare scritte, per i pennivendoli ce ne sarebbe del materiale da campare per anni.
Vale lo stesso per il volantino fatto recapitare a “Calabria Ora”, una ridicola ed evidente falsificazione, probabilmente opera di un altrettanto incazzato contribuente nei confronti di Equitalia, ma utile per dare fiato alle trombe sul pericolo terrorista.
E che dire del drappo rossonero appeso alla lapide che in piazza Fontana, a Milano, ricorda l’assassinio del compagno Pinelli: secondo l’intrepido giornalista, rappresenterebbe una sfida in quanto sarebbe stato applicato proprio nell’anniversario dell’omicidio del commissario Calabresi. Peccato che quel drappo fosse lì dal Primo maggio, messo da qualche compagno o compagna al termine della manifestazione.
C’è da essere sicuri che ogni scritta, vecchia o nuova che sia, ogni sia pur piccola iniziativa anarchica, nei prossimi giorni godrà della massima attenzione mediatica: è chiaro che c’è chi vuole dimostrare l’esistenza di una forte minaccia anarchica, ovviamente violenta e terroristica, al bengodi che stiamo vivendo. E molti altri gli vanno a ruota.
Nelle crisi sono sempre ricercati dei capri espiatori, su cui indirizzare l’attenzione della cosiddetta pubblica opinione. Come sono riusciti negli anni ’80 a svuotare di segno e di contenuto la ricchezza dei movimenti del decennio precedente, rovesciandogli addosso, a tutti ed indistintamente, la responsabilità del lottarmatismo, facendo di ogni erba un fascio, comminando carcere a pioggia, provocando divisioni e contrapposizioni, così oggi c’è chi intende rispolverare i vecchi arnesi della criminalizzazione preventiva.
D’altronde la situazione per “lor signori” non è facile, devono far digerire misure sempre più indigeste e la paura di una ribellione sociale cresce in loro, anche più preoccupante perché si allarga in prospettiva a settori sociali tradizionalmente moderati (l’artigiano, il trasportatore, il piccolo imprenditore che prende il fucile, ecc.), aprendo un nuovo terreno di scontro – quello fiscale – che mai era stato appannaggio dei movimenti di contestazione radicale.
La voracità delle banche e delle oligarchie al potere non lascia grande spazio a politiche di crescita e la crisi dei derivati è lungi dall’essere risolta. La politica mascherata da tecnica amministrativa deve dar prova della sua capacità di governo, ricorrendo magari a soluzioni progressivamente autoritarie, come quelle che ci sta facendo digerire da tempo.
D’altronde se un autentico liberale come Piero Ostellino sul “Corriere della Sera” si permette di bollare il governo Monti/Napolitano di “salazarismo”, richiamando alla memoria il regime tecnocrate e conservatore che dominò il Portogallo per 50 anni, cosa dovremmo dire noi che verifichiamo ogni giorno sulla nostra pelle la riduzione degli spazi di espressione e di agibilità, di effettiva libertà di organizzazione e di azione?
Ovviamente anche l’attentato al dirigente dell’Ansaldo Nucleare è stato colto al volo per rilanciare, dopo le varie informative dei servizi segreti sul pericolo “anarco-insurrezionalista”, l’incombenza della minaccia terroristica di matrice anarchica, collegandolo al malcontento sociale crescente, al movimento NoTav e a chi più ne ha più ne metta. Un’operazione ardita questa perché ci vorrebbe qualcosa di più sostanzioso per potere collegare il terrorismo all’insofferenza sociale e al diffuso sentimento anti partitico, depotenziandone così i possibili sbocchi conflittuali e criminalizzando preventivamente ogni capacità di risposta popolare. Se poi si vuol collegare direttamente la rivendicazione del nucleo Olga ai movimenti sociali, basterebbe l’affermazione fatta dallo stesso “di non ricercare il consenso” per troncare sul nascere la discussione.
Ma temo che questo non basti per smontare il tentativo di sviluppare nell’immaginario collettivo del paese una legittimizzazione di una politica oppressiva in nome della difesa dal terrorismo.
Se l’operazione in corso è questa, è evidente che bisogna aspettarsi di più e di peggio.
In una situazione dove l’aggressione al livello di vita della popolazione si sta intensificando, soprattutto nel settore del lavoro dipendente, del precariato, del piccolo artigianato e commercio, e dove si avrebbe bisogno di tutta la mobilitazione, di tutta l’intelligenza e della capacità collettiva per organizzare risposte incisive, promuovere lotte, sviluppare iniziative di solidarietà sociale, dare ossigeno alle forme autogestionarie di risposta concreta alla crisi, appare inevitabile doversi misurare con chi pensa che un gruppo, un’organizzazione, dura, combattente, clandestina, possa ottenere risultati efficaci, con chi pensa di avere la risposta in tasca. Come il gruppo che ha firmato l’attentato al dirigente di Ansaldo Nucleare rivendicando la sua appartenenza alla federazione anarchica informale. Soprattutto se l’enfasi mediatica con il quale vengono riportate le “loro” imprese è funzionale al coinvolgimento di tutto il movimento anarchico in un processo di criminalizzazione generale, avente per perno la lotta al terrorismo.
A questo proposito la Federazione Anarchica Italiana ha da tempo denunciato l’uso infame e strumentale del proprio acronimo (FAI) per propagandare le azioni e le prese di posizioni del cosiddetto “anarchismo informale”. Uso che non solo tende a confondere deliberatamente le acque, ma che è rivelatore di una mentalità di tipo egemonico, autoritario, tendente a sovrapporsi all’esistente non con un libero confronto di idee e di proposte, tipico della metodologia anarchica, ma con l’appropriarsi – questo si molto formale – di una sigla caratteristica di altri.
Mentalità autoritaria ed egemonica che si manifesta, tra l’altro con la distribuzione a destra e a manca, di insulti e di giudizi, in merito a coraggio, paura, vigliaccheria, cinismo, ecc. ecc. così come si ricava dalla lettura della rivendicazione. Contrariamente a quanto affermiamo nel nostro patto associativo, il patto che abbiamo sottoscritto per definire le nostre relazioni all’interno della FAI, e cioè che “la FAI non pretende ad alcun monopolio dell’anarchismo”, dovremmo subire giudizi sprezzanti, predicozzi manichei, a nome di un neo-anarchismo che pretende il monopolio dell’idea erigendosi a giudice, prete e boia. È francamente un po’ troppo.
Per quanto riguarda l’azione di Genova l’anarchismo organizzato nell’Internazionale ha dato da tempo una risposta all’avanguardismo armato, confutandone ragioni e metodi.
Se concordiamo con la definizione che i dizionari danno della parola violenza (“Coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su di un altro così da indurlo a compiere atti che non avrebbe compiuto”, Zingarelli) non possiamo che classificare la violenza all’interno degli strumenti dell’autoritarismo.
Ed è per questo che nessun anarchico ritiene possibile elevare a sistema la violenza o concepirla come la levatrice del processo rivoluzionario. Tuttalpiù l’atto violento può essere inteso come una penosa necessità per contrastare la violenza, grande e generalizzata dello Stato e del sistema capitalistico. Per gli anarchici è evidente che l’atto violento in sé, in quanto atto autoritario, sostanzia un potere, e se eretto a sistema, rigenera lo Stato.
L’anarchismo si è sempre basato sulla consapevolezza nello scegliersi azioni ed obiettivi, e sulla responsabilità personale nel perseguirle, per cui se rifiuta da un lato di sposare tesi violentiste, dall’altro rifugge da impostazioni piattamente non violente; piuttosto esso rimanda sempre alla coscienza degli individui e alla interpretazione del momento storico in cui essi vivono.
L’efficacia dell’azione diretta non viene espressa dal grado di violenza in essa contenuta, quanto piuttosto dalla capacità di indicare una strada praticabile da tutti, di costruire una forza collettiva in grado di ridurre la violenza al minimo livello possibile all’interno del processo di trasformazione rivoluzionaria. Ed in questa ricerca il “piacere” dell’arma rappresenta un ostacolo insormontabile.
Con buona pace dei Nečaev di turno.
max
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La stura
da: Finimondo
Dare la stura significa «sturare, levare il tappo e lasciare che il liquido scorra. In senso figurato significa dar libero sfogo a parole, versi, ingiurie…». È questa l’impressione che si ha alla lettura dei numerosi comunicati di condanna e di distinguo dagli attacchi, avvenuti nelle scorse settimane, contro uomini e strutture del dominio. Che sia stata data la stura. Come se fino ad ora il rifiuto di differenziarsi agli occhi della repressione, il disprezzo verso coloro che vogliono farsi passare per “bravi ragazzi”, magari un po’ scapigliati ma tutto sommato bonaccioni, non fosse affatto una spontanea e naturale manifestazione del proprio essere, della propria individualità, delle proprie scelte di vita, ma unicamente una imposizione ideologica a cui ci si sentiva costretti a sottostare. Una specie di precetto astratto, di ricatto morale da sopportare, spesso a denti stretti, con mal celata pazienza. E, come è noto, anche la pazienza ha un limite.
Questo limite è stato superato con il ferimento (da parte di anarchici) dell’amministratore delegato della Ansaldo Nucleare a Genova, e con le molotov (anonime) alla sede degli strozzini istituzionali di Equitalia a Livorno. Ora basta! — si sono detti in molti — non staremo più zitti, ma prenderemo la parola per esprimere chiara e forte la nostra estraneità! Soprattutto se tutto ciò accade accanto all’uscio della propria casa. Così, da un silenzio evidentemente sofferto come omertoso si è passati d’un tratto ad un rumore considerato virtuoso. A quanto pare l’etica — quell’etica tanto decantata dagli anarchici — non era che un “tappo” contro cui si stava ammassando e premeva il liquido merdifico, lo sfogo rancoroso della dissociazione. Dissociazione non da una organizzazione a cui non si è mai partecipato, naturalmente, ma da una certa pratica dell’azione diretta: quella che non ha bisogno di venir legittimata da nessuna approvazione popolare.
Se a Genova è stata la rivendicata violenza contro un uomo in carne ed ossa a dare (pretesto di) scandalo, a Livorno è stata l’anonima violenza contro le cose. Ciò dimostra come sia l’idea stessa della possibilità di attaccare lo Stato al di fuori di un contesto allargato, collettivo, condiviso, ad essere considerata una aberrazione da stroncare con ogni mezzo. Non ce ne meravigliamo affatto. È solo un passaggio della china intrapresa dal movimento. Del resto, quando si va ripetendo a martello che nelle lotte si parte insieme e si torna insieme, quando s’impone l’alternativa secca fra la condivisione e lo Stato, quando si tenta in ogni modo di coniugare rivolta e politica, è inevitabile che prima o poi l’azione individuale si trasformi in qualcosa di controproducente da cui distanziarsi (o, per i più imbecilli, di losco da denunciare).
È peraltro assai probabile che chi ha dato la stura non si sia reso nemmeno ben conto delle conseguenze di quanto andava facendo. Forse pensava di allentare soltanto la pressione, di dare sfogo per un attimo alla propria irritazione al fine di potersi contenere più a lungo in seguito. Non è così. Il tappo, una volta smosso, è saltato del tutto. Un flusso di merda e bile sta schizzando fuori impetuoso, appestando l’ambiente e contaminando gli animi. Facile immaginare la soddisfazione di chi ha lanciato l’amo, nel vedere quali e quanti pesci stanno abboccando.
Di fronte a tutto ciò viene davvero voglia di tornare bambini. Di tornare ad essere quegli scolari monelli che, quando la maestra esigeva di sapere chi era il responsabile di una marachella, sapevano solo tacere per solidarietà di classe. A nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di strillare «Io no, signora maestra, io non sono stato». Davanti agli odiati insegnanti, tutti zitti! Che poi, i conti «tra di loro» si potevano regolare altrove e in un altro momento.
Ma oggi no, oggi non siamo più bambini. Siamo cresciuti. Siamo diventati adulti. Il gioco che cercava il piacere è stato sostituito dal lavoro che pretende risultati pratici. Abbiamo perduto quell’innocenza che non conosceva calcoli e strategie. In cambio abbiamo ottenuto una reputazione che — per puro calcolo e strategia — sa solo proclamarsi innocente.
AGGIORNAMENTO del 20/05/2010
Il carcere nel cervello…
E’ oramai chiarissima l’intenzione, da parte dei media, di dare più eco al rumore che causa il ferimento ad una gamba di un dirigente dell’Ansaldo Nucleare che le migliaia di vittime che negli anni il nucleare stesso ha provocato, anche per colpa di gente come Adinolfi. Si chiede a voce forte l’intervento dell’esercito, ma questo non ci meraviglia. La stampa nazionale, ed i media tutti, sono da sempre la voce dei partiti e delle questure. In un clima che inizia a riscaldarsi la voce del governante di turno, del politico o del questurino si alza attraverso le pagine dei quotidiani cercando di creare un clima di terrore generale che possa togliere l’attenzione dagli avvenimenti che stanno caratterizzando questo ultimo anno il “bel paese”.
La cosa più preoccupante non sono tanto i quintali di porcate scritte da pennivendoli con il tappo nel cervello e l’inchiostro nelle vene, ma alcune risposte che arrivano da chi della repressione ne è vittima quotidianamente. Incancreniti nel corpo e nelle idee ad ogni colpo si risponde con il piangersi addosso, assemblee, volantini, di mettere
“i puntini sulle i” e il tentare di riorganizzare “unità” che mettono più brividi delle inchieste stesse. Non c’è fiacchezza nelle risposte perché non esistono le risposte stesse; almeno quelle di movimento mentre quelle individuali fortunatamente arrivano spesso. Si parla di distruzione delle carceri ed i primi carcerieri delle nostre idee siamo noi stessi.
Ci sono tante cose che hanno sempre bloccato la crescita del “movimento” anarchico da quando si è stabilizzata una certa “pace sociale” creato anche da un anarchismo vecchio. Una su tutte la capacità, o la paura, di autocritica; la seconda è la coordinazione tra “pensiero e azione” che dovrebbe essere spontaneo e non “ ricercando una coerenza”; il pensiero stesso della ricerca di una coerenza è un cancello, un paletto…un ostacolo. Pensare di essere coerente con le proprie idee è la prima forma di “carcere” che creiamo in noi stessi; chi crede seriamente nelle proprie idee si comporta di conseguenza senza sentire alcun peso. Le carceri costruite intorno alle nostre idee devono essere le prime ad essere abbattute se si vogliono abbattere quelle di cemento armato, sbarre e vegliate da cani da guardia in divisa.
La “paura” è un sentimento naturale e non deve essere visto come segno di debolezza sia da parte di chi se la vive sia da parte di chi “paura” ne ha di meno. Sentir parlare, e leggere, gli anarchici, oggi, con frasi dell’800 fa venire i brividi; pensare di applicare tesi e concetti, concepiti un secolo fa, serve solamente a far crescere le ragnatele intorno al cervello.
“Il culto dei morti ha, sin dagli albori, frenato l’evoluzione degli uomini. Esso è il “peccato originale”, il peso morto, la palla che l’umanità trascina con sé”(A. Libertad).
Come ricordavano alcuni compagni in un documento, il movimento anarchico non è, e non deve essere, un movimento che da spettacolo tantomeno terreno fertile in cui immaginari filosofi dell’insurrezione si fanno spazio con la buona dialettica.
“Pensiero e azione”: questo deve essere l’anarchismo, queste devono essere le risposte! La solidarietà deve essere un’arma e non solamente un semplice termine scritto.
Le modalità su come portare avanti le singole lotte le decide il singolo individuo, ma bisogna tenere ben presente che le lotte stesse non si fanno con l’inchiostro e fiumi di parole; l’insurrezione non è una teoria dettata da professorini o filosofi e l’anarchismo non è una fede in cui si confondono le sedi, le sedie e i drappi neri con le chiese, inginocchiatoi,
e crocefissi.
I “calamai” non ci sono più, le “penne” non si usano quasi per niente, di “parole” se ne sono fin troppo sprecate ed i “pugnali” raramente avranno la meglio sulle pistole. La libertà non è mai stata regalata a nessuno; non è mai stato un pensiero, ma il sentimento più alto a cui un individuo dovrebbe aspirare…ed ottenere in qualsiasi modo con qualsiasi mezzo che si ritiene necessario contro chi, da sempre, ci ha messo un guinzaglio al collo e le catene a mani e piedi.
SOLIDARIETA’ A TUTTI GLI ARRESTATI
COMPLICITA’ CON I COMPAGNI ANARCHICI!
AGGIORNAMENTO del 18/05/2010
Stanno arrivando altri comunicati in merito alla discussione avviatasi dopo l’attacco della FAI/FRI. Oggi ne pubblichiamo altri due.
Dissociazioni e critiche – Uno spunto di riflessione
riceviamo e diffondiamo:
Uno spunto di riflessione
[…]
Nel movimento anarchico internazionale l’uso della violenza ha sempre creato divisione, e sollevato vespai di polemiche spesso accompagnate da scomuniche, che in certi casi sono sfociate addirittura nella delazione.
Tuttavia le divergenze nascono sui tempi e sui modi, né da una parte né dall’altra infatti si è mai arrivati a escludere in termini categorici il ricorso alla violenza.
Ma questa impostazione del problema non fa che accrescere la confusione. Chi decide, e con quali criteri, della bontà dei tempi e dei modi nell’uso della violenza? C’è chi sostiene che soltanto in una situazione preinsurrezionale, con le masse sul piede di guerra, ha senso utilizzare la violenza. Sarà anche vero. Ma non mi sembra che ci sia qualcuno in grado di stabilire con assoluta certezza, quando una situazione è preinsurrezionale e quando invece non lo è.
E poi trovo assurda, autoritaria, ridicola, questa pretesa di voler annullare l’individuo per sottometterlo alla “volontà popolare”, a questa astrazione che richiama alla mente la “volontà di dio”.
Se voglio compiere un’azione individuale, non vado certo a chiedere il permesso alle masse. Anche perché non mi risulta che le masse abbiano preso accordi con gli anarchici sulla data della rivoluzione. Né mi risulta che lo Stato abbia momentaneamente rinunciato alla sua violenza scientificamente organizzata affinché gli anarchici abbiano il tempo necessario per riuscire a convincere le masse a sollevarsi.
E allora sta a noi – soltanto a noi – decidere quando e come colpire il nemico, quando e come rispondere agli attacchi dello Stato. Perché l’oppressione e lo sfruttamento sono un dato costante, non occasionale. E non basta una maschera democratica e permissiva a celare questa realtà, e a far dimenticare che una minoranza criminale che detiene il monopolio della violenza, ha potere di vita e di morte su tutti noi.
Confesso che faccio sempre più fatica a comprendere le ragioni della divisione esistente nel Movimento sulla questione della violenza, non foss’altro perché non conosco nessun anarchico critico su questo punto, che nell’esercizio della violenza verbale non sia bravo e feroce almeno quanto coloro che non la pensano come lui.
Ma chi spara a zero contro padroni, politicanti, giudici, sbirri, preti, scienziati e quant’altro, deve essere cosciente anche del fatto che c’è sempre qualcuno che lo prende alla lettera e agisce di conseguenza.
Chi soffia sul fuoco poi non può cavarsela dicendo “è stato tutto uno scherzo”. Perché nella violenza verbale, è bene che si sappia, è implicito il suggerimento a colpire le persone e le cose di cui si fanno i nomi. In caso contrario, la scrittura e le parole diventano un surrogato dell’azione; uno sfogo alle proprie frustrazioni; un inno cantato a squarciagola alla propria impotenza. Ma io non voglio pensare che la violenza verbale che tracima da tutti i giornali anarchici esistenti sia soltanto un fiume di bile sulle cui acque galleggiano anime morte.
Una cosa però deve essere chiara: i discorsi queruli contro chi fa uso della violenza, fatti da coloro che amano cimentarsi solo nella violenza verbale, sono fastidiosi e meschini, e fanno sorgere negli altri il legittimo sospetto che siano dettati soltanto dall’istinto di conservazione, lo stesso che spinge a decretare l’isolamento nei confronti di coloro che hanno posizioni ritenute devianti e pericolose rispetto alla “linea” del movimento ufficiale.
Ma costoro evidentemente non sanno che esiste anche un modo intelligente, ed eticamente ineccepibile, di dissentire con chi si serve anche della violenza. Basta tacere. Ecco tutto. Così non si corre nemmeno il rischio di cadere nella delazione, che tale rimane anche quando la si vuole far passare per “posizione diversa”.
Intendiamoci bene. Non sto dicendo che chi non approva l’uso della violenza nei tempi e nei modi che secondo lui sono sbagliati, deve astenersi dal manifestare pubblicamente questa sua opinione. Ma una cosa è esprimere i motivi del proprio dissenso in maniera ragionata e perfino polemica, altra cosa è dissociarsi pubblicamente, attraverso comunicati da cui traspare la presunzione di sapere quando è giusto ricorrere alla violenza, e scritti con l’aria di chi sembra aver preso appuntamento con la Rivoluzione.
Ma cosa c’è che non va nell’avere un’opinione diversa da chi si serve di metodi che non si condividono e manifestarla pubblicamente?, osservò una volta un compagno, per niente stupido.
Benedetta ingenuità! La dissociazione non è mai “un’opinione diversa”. Perché se è vero che gli sbirri non possono sapere tutto di tutti, perché per fortuna ancora non sono arrivati a leggere nel pensiero, è anche vero che, grazie al loro normale lavoro di investigazione e di controllo, e grazie alla lettura dei nostri giornali, hanno acquisito una conoscenza abbastanza chiara e precisa, sia sulla natura dei rapporti e dei contatti tra i gruppi e le individualità operanti nelle diverse realtà di movimento, sia sul modo di porsi degli stessi rispetto all’uso della violenza.
Cosa c’entra questo col discorso che stiamo facendo? C’entra, c’entra… Se in una qualsiasi città viene compiuta un’azione rivendicata da anarchici e qualcuno fa un comunicato di dissociazione, per le ragioni di cui sopra, ciò equivale a dire alla polizia: “Non siamo stati noi, andate a cercare dall’altra parte…”, vale a dire tra quei gruppi e individualità che non si dicono contrari alla violenza.
Come si vede, si può essere delatori anche in buona fede. Ma chi lo fa si assume comunque una grave responsabilità: quella di dare i compagni in pasto alla repressione.
Antonio Gizzo
[testo tratto da: “The Angry Brigade, 1967 – 1984. Documenti e cronologia”, Edizioni “Il Culmine”/GAS – Infinita, aprile 1995, s.l.]
In merito a una dissociazione! (In risposta al comunicato di approfondimento di alcuni libertari-anarchici di Genova)
In questa città di Genova pare che esistano, quantomeno virtualmente, alcuni libertari e qualche anarchico, occasionalmente(?) cittadinisti, che sentono e manifestano la loro paura di essere colpiti dalla repressione.
Accampando pretestuose motivazioni metodologiche ed etiche hanno ben pensato di prendere preventivamente le distanze, come in una partita di scacchi si anticipa le mosse del nemico, dissociandosi (senza peraltro, che nessuno li avesse ancora associati).
Nel loro scritto sono preoccupati delle indagini che la questura svolge a loro carico ed esaltano le loro gesta pubbliche e collettive nei vicoli genovesi. Vivono la frustrazione di non essere riusciti a svegliare quel tanto osannato sociale e sentono l’esigenza di disprezzare azioni altrui. Sentono l’esigenza di chiarire ( agli inquirenti?) che stanno combattendo su un altro lato della barricata. Lo fanno in un momento strategico, adesso che qualcosa succede nella “loro” città e non molto tempo fa quando, per loro stessa ammissione, sarebbe stato utile.
Non pensiamo ci possa essere alcun dibattito portato avanti con chi si “difende” con meschine dissociazioni, solo che si chiamino le cose con il proprio nome e una dissociazione non diventi un “mettere i puntini sulle i”.
I soliti due rompicoglioni
Genova 17/05/2012
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Dopo la pubblicazione e relativa diffusione del documento di rivendicazione inviato al Corriere della Sera dalla FAI/FRI, si è scatenato un dibattito all’interno del movimento (non solo anarchico) riguardo analisi di fase e metodi utilizzati. Abbiamo già pubblicato un approfondimento di alcuni libertari-anarchici di Genova, ora tocca ad un Individuo, sempre di Genova, e ad un comunicato rilasciato su Infoaut dall’area Askatasuna.
Per ragioni di leggibilità pubblichiamo solo quello da Genova. Per l’altro rimandiamo al link.
riceviamo e inoltriamo:
………….A chi non si dissocia…………
Leggendo quel tristissimo documento che è uscito fuori, ahime, proprio dalla città in cui vivo è opportuno fare qualche ulteriore precisazione, tanto per non finire , e parlo a titolo personale, nel pentolone dei dissociati genovesi.
Ciò che balza subito agli occhi e successivamente al cervellino è il motivo per cui dei pseudo-compagni abbiano l’esigenza di scrivere un documento che probabilmente neanche Don Gallo con tutta la comunità di San Benedetto sarebbe riuscito a partorire.
Un documento che prende in considerazione solo l’azione a quel pezzo di merda di Adinolfi, come se non si meritasse una pallottola in una gamba, e parla di qualche mortaretto spedito qua e la come il male assoluto.
Forse vi sentite toccati? La risposta è si, non penso che nessuno vi spii a parte i soliti diciamo, ma la paura di sentirsi giudicati è più forte di voi, forse siete voi i primi a pensare che non fate abbastanza, ma non lo volete ammettere, e per questo vi sentite chiamati in causa e con la coda in mezzo alle gambe cercate giustificazioni sul vostro essere anarchico.
Nostalgici!? Ma se oggi voi sputate bile verso chi compie un azione, condivisibile o meno, cosa avreste detto nel 1900 quando un certo Gaetano Bresci ammazzava il vostro tiranno: pistolero incallito ? E cioè avreste preso la posizione di tanti “anarchici
rchè non mettere i nomi dei firmatari e non alcuni, forse, anarchici o forse libertari o forse individualità genovesi ?
Abbiate il coraggio delle vostre azioni perchè i compagnie le compagne genovesi non devono, ogni volta che escono da sta città del cazzo, dare spiegazioni su chi ha scritto quel documento o meno.
Penso che comunque il vostro obiettivo l’avete ottenuto, ed era quello di innescare un dibattito, ma secondo me, prima ancora di far partire una discussione di questo tipo, voi avete pensato a dissociarvi per pararvi il culo. In giornate come queste a Genova dove si vedono tipi loschi a ogni angolo di strada, dove i giornali pubblicano veline della questura, minacciano perquisizioni ovunque in città, uscire fuori con un documento di quel tipo vuol dire io non c’entro. Mi ricorda il gioco del buono e del cattivo……..da che parte della barricata state ? Forse come dite voi dall’altra !
Io non mi dissocio, avrei preferito dirglielo direttamente agli sbirri nel caso fossero venuti a casa per l’ennesima perquisizione, ma voi mi costringete a prendere una posizione ORA, per non essere confuso con gente che ha la coda di paglia e che magari parla di un occupazione come il massimo obiettivo da raggiungere.
Tanto e tanto altro bisognerebbe dire, ma penso sia chiara la mia posizione e quindi mi fermo qui.
INDIVIDUO
Carlo di Genova più o meno!