Il campeggio Gravella e l’Estate di lotta No Tav sono stati di nuovo un buon esperimento, che ha costretto la controparte a mobilitare, oltre al suo (sempre più elefantiaco) apparato militare, anche il suo potente apparato spettacolare. L’uso di toni sempre più sguaiati da parte dei parlamentari e dei notabili a libro paga della Lobby del Tav dimostra che al potere non basta più parlare di sé a se stesso, ma che per muovere i suoi tentacoli polizieschi ha bisogno dello strepitio di imbrattacarte e faccendieri. Così, mentre si taglia la coda per farla ricrescere, denunciando scandali giudiziari che non interessano più a nessuno, sacrificando il corrotto di turno, scoprendo yacht e auto di lusso comprati con i tributi degli italiani, il movimento No Tav è attraversato da tensioni e possibilità, intuizioni e zavorre, pessime idee e guizzi geniali, banco di prova ineludibile per coloro che vedono nella Val di Susa un laboratorio per nuove possibilità, e una speranza di rivoluzione. Da Bergamo a Palermo, da Napoli a Bologna, da Cagliari a Venezia, tanti refrattari han percorso i tornanti che portano all’ormai famoso campeggio No Tav, il “campo base” che ha saputo tenere testa a un’occupazione militare vera e propria, per ben tre mesi. Un luogo come il campeggio Gravella ha dimostrato una volta in più, in questi tre mesi, che miscelando le tensioni, procedendo insieme ai complici che vogliamo grazie alla fiducia e alla limpidezza delle nostre idee e dei nostri modi di essere, possiamo creare, anche stretti tra il bosco e il fiume, e tra un fortino militare e la montagna, crepe profonde in questo mondo.
È ciò che il potere non conosce e non comprende, ciò che noi abbiamo saputo costruire: un laboratorio di sperimentazioni, un buon viavai di intelligenze che non sono state svendute alla politica. La mobilitazione di quest’anno ha visto anzitutto la partecipazione di un numero maggiore di giovani della valle: ragazzi, che avevano vissuto il movimento in modo più distaccato negli scorsi anni, e che ora cominciano a vivere il loro territorio attraverso uno sguardo conflittuale, ma per fortuna ben poco militante ( ad eccezione di alcune realtà inquadrate, nate in seguito a proselitismo d’area, che rischiano di diventare mero strumento di espressione della linea dettata da altri.). Una partecipazione, quella giovanile, molto importante, se è vero che la lotta ha bisogno non solo del supporto di pensionati e famiglie, ma anche di adolescenti, ragazze e ragazzi, studenti delle scuole della valle: una componente che, per ragioni generazionali e sociali, più che di indole, ha spesso difficoltà a trovare modi e capacità per confrontarsi con compagni e monelli più stagionati, – confronto che resta molto proficuo per poter praticare i momenti di scontro con più idee e strumenti – e che ha sempre frequentato di malavoglia le «lentissime» riunioni dei comitati.
Oltre alla componente giovanile di valle, un’altra che è apparsa in via di rafforzamento è quella della solidarietà straniera: in tre mesi abbiamo avuto il piacere di conoscere, nel vivo della lotta, compagne e compagni provenienti da tutta Europa. Tedeschi, inglesi, spagnoli, turchi, portoghesi, francesi, kurdi, svizzeri, polacchi, svedesi, austriaci hanno raggiunto il campeggio (e in molti casi hanno faticato a lasciarlo, già innamorati della valle!) e ci hanno raccontato le lotte antinucleari in Germania, la nascita dei comitati No Tav in Francia, l’opposizione al governo in Turchia, la resistenza delle occupazioni di Londra… È stata l’occasione, per loro, di vivere dall’interno una battaglia su cui circolano in molti paesi racconti e informazioni (talvolta addirittura miti!), e di cui hanno immediatamente percepito la contradditorietà nel carattere insieme potenzialmente rivoluzionario e tiepidamente conservatore, quieto e bellicoso a seconda delle occasioni, ampio ma circondato da diverse difficoltà. Senza dubbio l’arrivo di così tanti No Tav europei, in treno o in bicicletta (fin dal Portogallo!), in furgone o in autostop, meriterà nei prossimi anni maggiore attenzione, anzitutto attraverso traduzioni puntuali degli appelli, dei testi presenti sui siti, delle assemblee e delle informazioni nei presidi e nei campeggi.
I valligiani, dal canto loro, hanno supportato il campeggio in modo più continuativo e attivo dello scorso anno, nonostante l’onere degli spostamenti in macchina (con quello che si potrebbe fare di ‘sti tempi con la benzina!) su è giù per la valle, molestati da continui posti di blocco. Tuttavia resta che i valligiani sono tendenzialmente più lontani dall’idea di campeggiare in valle, e così molti momenti quotidiani di vita del campeggio sono stati animati maggiormente dagli altri, da chi aveva deciso, per l’estate, di affiancare al piacere dei ruscelli e della montagna una scommessa su un possibile futuro di tutte e tutti. Ma non è mancato il sostegno attivo dei comitati, che hanno affrontato duri turni settimanali, spalmati su tre mesi, per un’ottima cucina in grado di sfamare tutti, e che non sono mancati, oltre che alle manifestazioni e alle assemblee, agli incontri con i No Tav Terzo Valico e con chi si organizza di fronte a sciagure naturali (come i terremotati emiliani), o alle presentazioni di libri e dossier.
Tre mesi di lotta, attraversati da migliaia di persone provenienti da luoghi e percorsi diversi, lingue diverse (fatto, questo, dalle conseguenze talvolta non indifferenti), non avrebbero potuto non sollevare questioni di grande importanza, discussioni e confronti anche veraci, che non hanno mai travalicato la scelta consapevole, da parte di tutti, di fare proprio il rispetto profondo per gli altri, dal momento che se è insieme che si parte ogni volta, è insieme che si dovrebbe ritornare.
Non si sono riproposti i problemi dell’estate 2011, quando ad alcuni individui, talvolta raccolti sotto piccoli gruppi di “affinità” si era cercato di far accettare l’assemblea come organo decisionale, con insano e arrogante disprezzo per la dimensione individuale, e persino velleità (peraltro improbabili) di sovradeterminazione del movimento. Quest’estate tutte e tutti hanno condiviso l’importanza della pratica dell’autogestione totale, e evitando quindi la sovranità completa delle assemblee come unico luogo decisionale. (Con buona pace di chi, furbescamente, imputa a ideologie istituzionali e capitalistiche l’ importanza dell’ individuo e la validità del gesto individuale per poter così imporre la propria linea politica).
Naturalmente c’è chi non smetterà mai di credersi stratega incompreso, di voler guidare il movimento dal suo interno (particolarmente definendo ogni propria scelta come popolare) o di essere convinto che due frasi in croce, imparate a memoria su qualche blog che riassume letture malcomprese di operaisti d’altri tempi, siano sufficienti a farsi profeti (chissà se acrobati) della rivoluzione. E’ emerso, senza troppe fortune, qualche tentativo di pilotare l’assemblea, e del resto questa è una situazione inevitabile, dal momento che fin quando ci sarà qualche organizzazione politica che vorrà “proibire” o “imporre” alcunché, questa pretenderà sempre di incidere su percorsi collettivi sui quali si lancia bavosa.
Resta inoltre il problema – che è stato anche discusso – dell’utilizzo dello slogan “No Tav” come un brand commerciale – come già successo con altri fortunati loghi (acab, antifa etc) – , ovvero qualcosa da attaccarsi al petto (o con cui farsi fotografare dai giornalisti) per darsi una legittimità di ritorno, sperando di ottenere brandelli di consenso che non si riuscirebbero ad ottenere senza coprirsi dietro a una battaglia più grande, a un nome più grande. Un utilizzo che al movimento difficilmente potrebbe piacere, come è emerso in molteplici discussioni: gli sforzi dei valligiani, in tutti questi anni, non sono stati compiuti per aprire spazi utilizzati da altri, tanto più se secondo logiche politiche e cripto-leniniste sul cui rifiuto il movimento ha costruito tutta la sua forza conflittuale.
L’azione compiuta senza l’avvallo delle componenti politiche può, infatti, portare a valutazioni negative (anche scritte) da tali parti del movimento. Chi descrive queste valutazioni come “dissociazioni” pecca di precisione, non di sostanza: è vero che il movimento non può dissociarsi da qualcosa a cui non si è mai associato, ma ciò cui contribuirono i “dissociati” in precedenti cicli di lotte, con la loro disponibilità, fu quello di restringere il campo di investigazione. Astenersi da una “complicità” automatica è cosa buona e giusta: non necessariamente bisogna essere (chissà perché, poi) d’accordo con qualunque cosa faccia chiunque, in qualunque luogo. Ad una “complicità” così qualunquisticamente (e, perché no, passivamente intesa), contrapponiamo la solidarietà attiva, a viso aperto (ma a bocca chiusa), di chi decide di mettersi in gioco in prima persona, affrontando il terreno dell’illegalità quando necessario (senza mai piagnucolare per le conseguenze repressive) e sempre in base a decisioni che si prendono e si maturano di volta in volta insieme a chi si è scelto come compagno di via. Non ci interessano soporifere questioni teoriche sulla sacralità della lotta di massa e dei suoi atti. Mero politichese – noi siamo interessati alla rivoluzione.
Non si può praticare lo scontro senza coltivare l’amicizia, la condivisione, l’aggregazione sociale; e il movimento ha i suoi tempi e le sue fasi, che vanno compresi e rispettati. Un atto condivisibile in astratto deve essere valutato dal grado con cui il suo fine e il suo mezzo si compenetrano: là dove questi aspetti si separano, è lì che nasce la politica. L’amicizia nella diversità che nasce nella lotta va tutelata, perché su una barricata è sempre meglio non litigare. Poi purtroppo esistono partiti o correnti, soggetti in continua trasformazione per poter monopolizzare la realtà della lotta. Le assemblee del movimento, se ricalcate sul modello degli organi istituzionali, saranno solo il luogo dove fazioni e bassi interessi politici si scontrano per arrivare a un voto, dove esistono vincenti e perdenti, dove c’è chi prevale e chi soccombe. Possono invece anche essere un luogo dove le idee cambiano di giorno in giorno, dove l’esperienza è rivoluzionaria per chi vi partecipa, dove le decisioni non per forza devono essere unanimi ma possono essere coordinate…un’armonia di dissonanze.
Questa esperienza di lotta non è qualcosa che si sviluppa sulla concordia astratta tra chi vi partecipa, bensì sulla discordia della contrapposizione con ciò che devasta i nostri territori, compra e mortifica i nostri corpi e le nostre intelligenze, percuote e intossica le persone per limitare la loro speranza di poter cambiare se stessi e il mondo che li circonda. Il segreto della lotta No Tav, la pozione magica della sua possibile riproducibilità, sta nella sua capacità di produrre conflitto non meno che condivisione, piacere e complicità. Fa parte del suo vissuto il riconoscimento dello scontro come uno dei momenti essenziali. Il conflitto non isola i movimenti, non li rende incomprensibili agli sfruttati; li qualifica, ne può disegnare una fisionomia di classe, altra rispetto al mondo delle istituzioni che danno forma al presente della devastazione e dello sfruttamento, della militarizzazione e della disinformazione. Soltanto l’indisponibilità ad esser complici di questo modello sociale può aprire nuovi scenari, al di fuori di rapporti di produzione della ricchezza, dal dominio globale di chi lucra sulla devastazione sociale e ambientale.
La scelta di dare battaglia è, anche nei momenti impegnativi dell’assedio, della barricata o della rottura di un divieto, l’unica che ci permette di essere concreti, vale a dire di non delegare alla politica la tutela delle nostre vite e dei nostri bisogni. La storia del movimento mostra chiaramente che, sul piano della gestione burocratica e parassitaria dell’esistente (la gestione istituzionale, appunto), non ci sono destra o sinistra che tengano, poiché la torta da spartire è sempre la stessa: che sia il carrozzone di Lunardi da un lato, o la CMC dall’altro, i partiti rappresentano l’interesse di minoranze rappresentate da gruppi, che hanno a disposizione i mass-media e migliaia di uomini in divisa. Se il movimento, in questi anni, ha avuto un’influenza effettiva sulle istituzioni locali – i cui amministratori sono in molti casi dei No Tav – tuttavia una delle sue possibilità concrete potrebbe essere proprio quella di fare a meno delle istituzioni e della caciara dei loro rappresentanti. La lotta è la scelta obbligata del movimento perché, oggi, è scelta obbligata per chiunque voglia strappare al potere la propria libertà. La valle sa che cosa è suo: per questo non trova più necessario attendere da qualcuno o qualcosa, interno od esterno ad essa, le ricette per la vittoria; né apprende altrove, se non nella lotta, la scienza e le pratiche della sua liberazione.
(è possibile trovare un testo simile qua:http://www.notav.info/editoriale/estate-notav-volti-intelligenze-e-fisio…)